Visto all'Eliseo di Roma
Salvare Viviani?
Alfredo Arias, ignorando le peculiarità del Varietà italiano, ha messo in scena un risibile “Eden Teatro” di Viviani come se fosse uno stupido e ricco spettacolo da Music Hall. Coinvolgendo in questo disastro anche il grande Mariano Rigillo
Si può ancora mettere in scena Raffaele Viviani? Questi anni e mesi recenti hanno fatto terra bruciata di tutto ciò che pareva attuale del Novecento fino a solo poco tempo fa. Il definitivo trionfo degli interessi individuali su quelli collettivi – sancito nel nostro Paese lo scorso quattro marzo – autorizza a credere che il Novecento sia definitivamente archiviato. E con esso i problemi che esso ha affrontato. Raffaele Viviani, improvvisamente espulso dall’attualità per via della sua predilezione per il ritratto collettivo a discapito dei ritratti individuali (relegati al mero bozzettismo per limpide intenzioni ideologiche), in questo contesto pare un autore superato, un reperto noioso, antiquato. E come tale, come un reperto d’epoca, appunto, forse andrebbe riproposto: le sue commedie non sono più che un documento storico privo di corrispondenze attuali, un po’ come certi autori dei secoli più lontani.
Andate a vedere Eden Teatro in scena al Teatro Eliseo di Roma e ne avrete una dimostrazione amara e terribile. Il celebre copione di Raffaele Viviani dedicato alle pezzenti meraviglie del Varietà è ormai solo un frammento documentaristico: andrebbe visto in un vecchio tv in bianco e nero, senza orpelli, per capire com’era sciocca, cattiva e dolente la società italiana alla fine degli anni Dieci del secolo scorso (Eden teatro è del 1919). E invece qui il regista Alfredo Arias, che nulla sa del teatro popolare italiano e ne confonde la miseria creativa con la stupida ricchezza del Music Hall inglese e francese dell’Ottocento, trasporta quel mondo dolente e terribile (che insegue la fama per evitare la fame, come diceva Viviani) in un contesto sontuoso e frivolo rendendolo insopportabile, oltre che incredibile. Se il vecchio Varietà ha ancora qualcosa da dirci (ammesso che sia così), questo qualcosa è nel modo in cui un secolo fa le classi subalterne cercavano di contrastare la loro compassionevole posizione sociale. La dignità dei comici e delle sciantose che con un ghigno o con un’allusione sessuale cercavano di sfruttare la scostumata nullità dell’altrui ricchezza è qualcosa che oggi potrebbe apparire rivoluzionaria, sapendolo suggerire. A patto di leggere Viviani, appunto, come un documento d’epoca e non travisandolo come un puro agente spettacolare: i monologhi comici e le canzoni di Viviani, dal punto di vista strettamente testuale, non hanno più nulla da dirci, sono noiosi quando non penosi (prendete il caso di due storici cavalli di battaglia del Viviani del Varietà: Lingue sorelle e Pornografia riproposti in questo copione).
Ecco perché l’edizione attuale Eden Teatro (la storia di una compagnia di Varietà fatta di uomini e donne miserabili e cattivi, pronti a qualunque bassezza pur di fregare il prossimo nel nome della propria sopravvivenza) non è parso il ritratto di una società orrendamente deformata dalla miseria ma la fotografia patinata, oleografica di una Napoli che non esiste e forse non è mai esistita: ieri sera all’Eliseo semivuoto mancava il Pino in fondo al Golfo con gli spaghetti e il mandolino in primo piano a confermare l’anacronismo della lettura registica. Saranno stati trent’anni fa quando vidi un Eden Teatro ben altrimenti sovversivo e cattivo diretto da Roberto De Simone e non si poteva evitare, stavolta, di annotare come i tempi siano irrimediabilmente cambiati… Davvero non mi spiego come il Teatro Stabile di Napoli, sontuosamente foraggiato dalla comunità, continui a far lavorare il franco-argentino Alfredo Arias sull’iconografia napoletana che egli, con tutta evidenza, ignora: gli si faccia fare altro, a volerlo proprio impiegare!
E fa male vedere il bravo Mariano Rigillo (la cui meraviglia interpretativa resta legata ad alcuni migliori Viviani della mia carriera di spettatore) qui accennare in abiti ricchi e aria vincente i pezzi forti di due perdenti vivianei per eccellenza: Tatangelo (il comico protagonista del copione) e Carmen Zuccona, la sciocca, profittatrice debuttante che cerca in arte, esponendo sesso e cosce, un riscatto alla propria miseria. Né bastano il birignao canoro di Gaia Aprea (il suo Comm‘a fronna grida vendetta!) o l’anacronismo da cantante di giacca di Mauro Gioia a rialzare le sorti di uno spettacolo inutile. Solo ho apprezzato la sguaiatezza di Ivano Schiavi, unico esempio di concretezza napoletana, senza vanità, senza compiacimento ma puro artificio per mettere insieme il pranzo con la cena. Ed è meglio non dire degli arrangiamenti musicali di Pasquale Catalano che tolgono dolore (e colore) agli automatismi di Viviani (autodidatta musicale) e lo trasformano in un canzonettista allegro e spensierato che egli non è mai stato.
Non so se Raffaele Viviani possa ancora essere messo in scena, ma certo se si vuole portarlo a teatro lo si deve fare rispettando il suo dolore e non facendolo passare per un modesto intrattenitore. Ripeto: se proprio il regista Arias non vuole leggere libri sulla storia della nostra comicità popolare, che almeno qualcuno gli spieghi in poche parole che il Varietà italiano non è il Music Hall. Il Varietà italiano è cattivo, non ricco e conciliante come il suo zio ricco che, noncurante, non gli lascò nulla in eredità.