A Roma, al complesso San Giovanni
Luna park Klimt
Klimt Experience è una strana mostra che celebra i cent'anni dalla morte del popolare artista. Non ci sono opere, ma solo riproduzioni che stimolano emozioni. Un gioco che prescinde totalmente con l'esperienza artistica
Cento anni fa moriva Gustav Klimt (1862-1918), uno dei grandi maestri della pittura che hanno sigillato il trapasso dall’arte dell’Ottocento alla modernità. Stroncato da un ictus ad appena cinquantasei anni nella sua Vienna, capitale dell’impero asburgico crollato con la Grande guerra e di una straordinaria stagione di vitalità culturale, di cui avrebbe vissuto da protagonista ed esaltato gli ultimi bagliori. Consacrato da un precoce, costante successo, è stato trasformato dalla cultura di massa in un inarrivabile fabbricante di icone senza tempo; i suoi capolavori riprodotti in manifesti che hanno resistito all’usura del gusto per varie generazioni fino ad oggi.
È su questa fama mutilata da personaggio a una dimensione, rispolverata come chiave per la celebrazione del centenario, che fa leva una gettonatissima antimostra multimediale, Klimt Experience che, dopo i successi di Firenze, Milano e Caserta, fa tappa a Roma, dove terrà cartellone fino al 10 giugno. Inedito e fascinoso il palcoscenico: il complesso San Giovanni Addolorata, un ex edificio religioso seicentesco prestato da un complesso ospedaliero e appena restaurato, che si affaccia su piazza San Giovanni. Tutto made in Italy il progetto: uno storico d’arte, Sergio Risaliti, a scegliere le opere, un regista di cinema, Stefano Fornasi, a impaginare su più schermi le proiezioni e ad aggiungere loro una doppia coda di brevettati effetti virtuali in 3D. A far da contorno, una saletta dove scorrono su vari video dati e immagini della biografia. Qualche pannello che illustra le fasi della sua vena creativa. E dei modellini di abiti ricavati dal guardaroba dei quadri.
Il risultato è uno spettacolo di multivisione e percezioni subliminali che assomiglia per campo d’azione e contenuti a una mostra d’arte, ma non lo è: neanche un’opera originale lungo il percorso, non dico un quadro, ma almeno un disegno, una litografia d’epoca, qualcosa che ci riporti al qui e ora, a una presenza di realtà, se non i manifesti, i cataloghi, i souvenir in vendita all’uscita. Ma allora cos’è? È il futuro che avanza con una velocità radicale che neanche le profezie di Walter Benjamin avevano contemplato. Virando verso il linguaggio immateriale del cinema e della foto, l’arte qui non solo rinuncia alla zavorra dell’aura ma persino al suo corpo. Diventa – come ci spiega il titolo – un’esperienza, anzi un trittico di esperienze, cui Klimt offre solo il pretesto (il format si può applicare a qualunque artista). E che ogni spettatore può personalizzare come vuole, rincollando insieme le impressioni che gli restano dentro.
La prima esperienza è quella di un film di immagini ingrandite e rielaborate proiettate su più schermi, senza alcun commento o didascalia, ma con una colonna sonora di musica classica d’epoca e un effetto di abbraccio visivo avvolgente che moltiplica l’impatto emotivo. Ti siedi in una fila di poltrone e guardi, fisso sullo schermo più vicino, o passando dall’uno all’altro fino a quando il torcicollo non ti scoraggia, le immagini, ingrandite fin quasi a sgranarsi, delle opere che sfilano raccolte per cicli tematici, finché la sequenza non cambia. Dura circa un’ora che scorre via gradevole. Il ritmo del montaggio è abbastanza serrato, ravvivato dai trucchi che con eccesso di licenza la regia si concede. Come vagare e zoommare sui segni e i colori, quelle tacche eleganti e geometriche con cui Klimt tratta abitualmente lo sfondo, arricchisce gli abiti delle sue figure femminili. Come a volte assegnare a quei particolari su cui l’obiettivo si concentra addirittura vita propria e farli fluttuare nello sguardo come pesci di un bizzarro acquario. Gradevole anche questo vagabondare, qualcosa di simile alle associazioni di pensieri e visioni che si accavallano se ti sei fumato una canna. Un gioco che però – a snebbiarsi la mente dal fumo – è anche il limite e il tallone d’Achille di questa rilettura di Klimt. È vero, quei ghirigori eleganti, quel mosaico di volute, triangoli, fronde d’albero sono una caratteristica inconfondibile del suo stile e dei suoi debiti al culto delle arti applicate. Ma sciogliere dal guinzaglio questi dettagli significa stravolgere l’impianto del quadro, rompere l’equilibrio con cui Klimt governa comunque i suoi sfondi, animandoli di un moto diverso da quello che attraversa e agita le figure. Più che un indagatore dell’anima, degli abissi della seduzione e della vanità, quale è stato attraversando le stagioni del postimpressionismo, del simbolismo e dell’espressionismo, Klimt ci appare qui soprattutto come decoratore da grandi magazzini, un artigiano della superficie.
Imponendoci la sua mediazione e le sue vistose cadute nel kitsch, la regia ci consegna così con trucchi da illusionista uno spettacolo spersonalizzante, che ci allontana più che avvicinarci davvero all’artista. Inutile ripetere che vedere un quadro dal vivo è altra cosa, un dialogo a tu per tu, possibile solo se ci lascia piena libertà di scegliere se restarne fuori o cominciare ad abitarlo attraverso percorsi mentali ed emotivi che nessuno può dettarci. E che comunque richiedono un impegno diverso e più intenso: conoscenza, approfondimento, studio, capacità di interrogarsi e interrogare, rimettendosi in discussione. Traguardi che questa rivisitazione in facsimile trascura volutamente. L’intenzione è rassicurarci, non costringerci a lavorarci su. Non a caso – lo si capisce dai commenti che rompono il silenzio in sala – gli indici di gradimento del pubblico salgono immediatamente verso l’alto quando lo schermo inquadra le opere più note, icone come il Bacio, la Giuditta, l’Albero della vita.
Le altre due esperienze in programma ci aspettano nelle sale successive. Ed evocano più il Luna Park che il teatro o il museo. C’è lo spaesamento da labirinto della camera degli specchi: le stesse immagini che hai ammirato in poltrona ora riflesse sopra, sotto, attorno, si moltiplicano a dismisura in un ripetersi soffocante di inganni. E c’è poi il viaggio a tre dimensioni che ti offre l’ultima stanza appena ti siedi su quelle poltrone da barbiere addossate di lato e calchi la cuffia con il visore speciale che ti trasporta in una sorta di galleria virtuale. Fissi un quadro e quello ti si avvicina, ti invade, ti abbraccia. Sei inghiottito in una voragine d’oro, corri a pelo d’erba su un prato costellato da fiori che ti sbucano davanti all’improvviso, scorgi un fiume poi ti trovi a sguazzarci dentro. Un sogno di fantascienza che si materializza. È il futuro che probabilmente ci aspetta. Fermiamolo, fermiamoci prima che sia troppo tardi. O rassegniamoci, e per allenarci al dopo gustiamo quel che ci portano in tavola come se non fosse un ologramma o una copia a ricalco di plastica.