Roberto Verrastro
Un inedito della grande pensatrice

La libertà secondo Hannah Arendt

In una lezione ritrovata, Hannah Arendt analizza il rapporto tra libertà e liberazione: se non vince il bisogno e la paura, la libertà in sé non ha mai un valore assoluto: le rivoluzioni del Settecento ce lo insegnano...

Sintesi e chiarezza che si cercano spesso invano negli odierni opinionisti e accademici, si trovano ancora una volta in una delle voci più autorevoli e attuali del Novecento, quella di Hannah Arendt, pensatrice politica che, lasciata la Germania nazista, visse negli Stati Uniti dal 1941 fino alla morte a 69 anni nel 1975, insegnando a Berkeley, Princeton, Chicago e New York. Un manoscritto inedito da lei datato «1966-67» e intitolato «Una lezione», della quale non è stato possibile accertare la sede e la data precise, dopo la prima pubblicazione online sul numero 2 del 2017 della statunitense New England Review con il titolo La libertà di essere liberi, è approdato quest’anno con lo stesso titolo in due edizioni cartacee, la prima in un singolo volume pubblicato il 12 gennaio in Germania (Dtv Deutscher Taschenbuch Verlag, 64 pag., 8 euro), la seconda in un libro edito il 6 marzo negli Stati Uniti, dal titolo Pensare senza una ringhiera (Schocken Books, 608 pag., 35 euro), che rievoca una celebre esortazione dell’autrice e raccoglie suoi scritti degli anni dal 1953 al 1975.

Quando alla fine del Settecento, con la Rivoluzione francese e quella americana, passò in secondo piano il significato astronomico del termine, associato al moto dei corpi celesti, «qualcosa di simile, ma infinitamente più complesso, accadde alla parola libertà», scrive Arendt, che spazza via subito i luoghi comuni: nessuna rivoluzione è mai stata avviata dalle masse popolari e, per il dispiacere dei complottisti, «nessuna rivoluzione è mai stata il risultato di cospirazioni, società segrete o partiti apertamente rivoluzionari». Se l’autorità dello Stato è intatta, ovvero se le forze armate obbediscono senza esitare alle autorità civili, non è infatti possibile alcuna rivoluzione, che non è la causa ma la possibile conseguenza del crollo dell’autorità politica, al termine di prolungati processi disgregativi ai quali sia stato permesso di svilupparsi senza controllo. Solo allora può verificarsi una rivoluzione, i cui protagonisti nelle fasi iniziali sembrano agire con sorprendente facilità proprio perché non prendono il potere, come di solito si dice, ma «lo raccolgono nel luogo in cui si trova: nelle strade», come ben sapeva Lenin, che sosteneva che è relativamente agevole afferrare il potere ma molto più difficile mantenerlo.

Prima delle due rivoluzioni settecentesche, su entrambe le sponde dell’Atlantico, gli intellettuali avevano dedicato tempo ed energie allo studio e alla riscoperta dell’antichità classica che, dopo secoli di tradizione cristiana e assolutismo, forniva l’esempio di quel che poteva rappresentare per la felicità dell’uomo la piena partecipazione agli affari pubblici; quest’ultima essendo la vera essenza della libertà che, per essere garantita, richiedeva la costituzione di una repubblica, laddove per la sola liberazione dall’oppressione di un potere dispotico sarebbe bastato un governo monarchico non tirannico. Gli uomini delle prime rivoluzioni sapevano dunque che la liberazione così intesa era il necessario presupposto della libertà politica, ma erano ancora inconsapevoli del fatto che, prima della liberazione dalla paura alimentata da un potere autoritario e antidemocratico, veniva quella dal bisogno. La povertà disperata delle masse popolari, origine della loro sostanziale indifferenza a una libertà che si esaurisca nella tutela di quelli che oggi chiamiamo diritti civili, non poteva essere superata con mezzi politici.

Questo sdoppiamento del concetto di libertà che Arendt individua specularmente a quello di rivoluzione, le permette di evidenziare che la Rivoluzione americana fu un trionfo (previsto da Thomas Paine, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, quando affermò che «quello che Atene era in miniatura, l’America sarà in grandezza»), soprattutto grazie all’assenza di povertà disperata tra gli uomini liberi e all’invisibilità degli schiavi nelle colonie del Nuovo Mondo. La Rivoluzione francese si concluse invece con un clamoroso fallimento, in quanto per la prima volta nella storia liberò i poveri dall’invisibilità, mostrando chiaramente che la liberazione dal bisogno, per l’appunto la libertà di essere liberi, era stata nel corso dei secoli il privilegio di una ristrettissima parte dell’umanità, l’unica che ora, con la liberazione dalla paura, poteva permettersi il lusso di concepire una passione per la libertà politica. Lo confermano le parole di alcuni protagonisti della Rivoluzione francese citati da Arendt, come Saint-Just: «Se desideri fondare una repubblica, devi prima di tutto allontanare il popolo da una condizione di indigenza che lo corrompe. Non ci sono virtù politiche senza amor proprio, che non può avere chi è miserabile». O Robespierre: «La repubblica? La monarchia? Io conosco soltanto la questione sociale».

E mentre la tanto celebrata tradizione pragmatica anglosassone impedì alle successive generazioni di americani di pensare alla loro rivoluzione concettualizzandone adeguatamente l’esperienza, Arendt conclude che il dispotismo, che già si annunciava nel corso della Rivoluzione francese, cacciato dalla porta rientrò dalla finestra, diventando la regola per quasi tutte le rivoluzioni successive, specialmente quella russa del 1917, perché ciò che sembrò irrevocabile dall’evento francese in poi, è che quanti erano devoti alla libertà rimanevano conciliati con uno stato di cose in cui la liberazione dal bisogno continuava a essere un privilegio di pochi. Fu proprio questa percezione a nutrire in modo possente in Europa le pulsioni antidemocratiche del Novecento, che Arendt aveva analizzato nel suo libro del 1951 Le origini del totalitarismo. Nello scritto appena pubblicato, l’autrice aggiunge tuttavia che si deve solamente all’ascesa della tecnologia moderna, invece che a qualsiasi nozione politica, comprese le ideologie rivoluzionarie o sedicenti tali, se questa condizione umana è mutata quanto meno in alcune aree del mondo.

La lezione da trarne nel presente è riassunta da Jerome Kohn, che di Arendt è stato allievo e assistente, autore dell’introduzione al volume Pensare senza una ringhiera, dove sottolinea che la libertà di essere liberi, che per Arendt è il fine di una rivoluzione politica, deve adesso fare i conti non più con il terrore e il totalitarismo, ma con un non meno insidioso totalismo, vale a dire con i segni di una più o meno completa repressione della libertà politica che si realizza in un sistema che diventi una burocrazia indifferente ai problemi dei cittadini.

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