Every beat of my heart
Gioia d’un fil di canto
Una bambina sotto un albero, ha una treccia bionda e intona con la sua piccola voce un canto… Con «versi fermi e scalpellati», Camillo Sbarbaro proferisce la sua preghiera: che la visione di quella felicità primigenia non ci sia mai negata
Camillo Sbarbaro è uno dei tanti poeti molto importanti del Novecento italiano, secolo di splendore poetico che pare rispondere e opporsi alla cruda realtà del fascismo che quel secolo nel nostro paese inquina.
Ligure, ammirato da Montale, a cui lo accumuna l’asciuttezza linguistica della sua terra fatta verso, similmente a quella del livornese semigenovese Giorgio Caproni, la sua poesia non è natante, o salpante (quella è la Genova di Campana, altra storia, polarità Whitman), ma lucidamente e aspramente scrutante da una Liguria d’entroterra. Quella che sarà fatta eterna da Meriggiare, di Montale.
Folgoranti le visioni di Sbarbaro e la pienezza di dolore e gioia contenuti in versi fermi e scalpellati, in ogni sua poesia e qui, in questa visione di bambina in cui l’oro dei capelli e il canto, solo un filo, essendo bambina, nella gola, svelano l’essenza della felicità umana.
A noi, cui tocca la ricerca della felicità nelle parole, a noi adulti, resti un cenno di quel canto nella piccola gola, il felice peso di quei capelli d’oro. Chiediamo, se non è troppo, di perdere prima la vita che quel tesoro. Senza il quale vivere sarebbe insignificante e vuoto.
È una sorta di preghiera profana, una richiesta alla vita. Quanto Shelley scopre nel canto dell’allodola, Keats in quello dell’usignolo, nelle piccole creature riempite di gioia primigenia, Sbarbaro vede in una piccola umana, una bambina. La gioia dell’allodola è anche tra noi, nel nostro non vuoto, non sconfitto mondo umano.
La bambina che va sotto gli alberi
non ha che il peso della sua treccia,
un fil di canto in gola.
Canta sola
e salta per la strada, ché non sa
che mai bene più grande non avrà
Di quel po’ d’oro vivo per le spalle,
di quella gioia in gola.
A noi che non abbiamo
altra felicità che di parole,
e non l’acceso fiocco e non la molta
speranza che fa grosso a quella il cuore,
se non è troppo chiedere, sia tolta
prima la vita di quel solo bene.
Camillo Sbarbaro
(1932, da “Versi a Dina”)