Vincenzo Nuzzo
Cartolina da Lisbona

Agostinho e la morale

Torna l'attenzione su Agostinho da Silva, uno scomodo filosofo della prassi, quasi un Pasolini portoghese, che «pensava ciò che faceva e faceva ciò che pensava»

Deduco quanto vado a scrivere dal libro di Romana Valente Pinho, dal titolo Religião e metafísica no pensar de Agostinho da Silva (Imprensa Nacional-Casa da Moeda Lisboa 2006); libro che è poi il prodotto della tesi di mestrado presentata dall’autrice nel 2004 alla FLUL di Lisbona. George Agostinho Baptista da Silva, noto semplicemente come Agostinho da Silva, ha rappresentato uno dei fenomeni intellettuali e culturali più originali della società portoghese del XX secolo. Eppure non rientra affatto in quel genere di intellettuali che in un certo senso tendono a trasformarsi poi in «mostri sacri», e quindi in istituzioni della cultura del paese o magari anche mondiale. In Portogallo tali sono stati, ad esempio, gli Eça de Queiroz, i Fernando Pessoa, i José Saramago. Agostinho da Silva è stato invece sempre diverso da costoro. Ma forse proprio perché la sua cultura è stata sempre vastissima ed enciclopedica, e i suoi interessi di pensiero ed azione sono stati sempre polimorfi. Qualcosa insomma di davvero difficile da inquadrare.

Nulla da meravigliarsi quindi se quest’uomo è risultato sempre indigesto negli ambienti in cui ha operato; in una maniera in qualche modo non poco simile al nostro Pasolini. Visto dai suoi docenti come un «provocatore dell’Accademia», si rese poi inviso anche alla polizia segreta salazarista (per il sospetto di comunismo anarchico). Cosa per cui finì in prigione, venendo infine costretto ad emigrare in Brasile in piena guerra, e cioè nel 1944. Ma anche dopo il suo ritorno a Lisbona nel 1969, e soprattutto dopo il reintegro nell’insegnamento accademico a seguito della Rivoluzione dei Garofani, Agostinho non risultò molto simpatico specie ai così spocchiosi circoli filosofici del suo paese. I quali peraltro non sembrano nemmeno ora molto lontani da un certo spirito e stile salazarista – e parlo per esperienza personale (a causa del mio dottorato presso la FLUL).

In ogni caso, Agostinho fu bollato con la qualifica di «filosofo popolare», o, peggio ancora, «filosofo di quartiere». Insomma, invece che come un pensatore immensamente colto e profondo, venne visto secondo il cliché (menzionato dalla Valente) di «simpatico vecchietto barbuto che dà da mangiare mais ai piccioni al Principe Real». Ma il fatto è che tutto questo non è affatto casuale. Perché il nostro rappresenta un genere di filosofo che oggi non è più affatto facile da trovare. Ossia un filosofo all’antica: uno che pensa ciò che fa e fa ciò che pensa. Un filosofo di prassi, di vita e di crescita spirituale. La sua intera opera di riflessione filosofica è stata infatti non solo metafisico-religiosa, e quindi è stata come tale inevitabilmente orientata alla prassi religiosa. Ma inoltre è stata anche sempre accompagnata da grandi progetti di azione; e non solo in termini di esperienza spirituale (come quello della partecipazione al centro monacale non convenzionale di Itatiaia in Brasile), bensì anche in termini politico-pedagogici e culturali. La sua prima impresa in tal senso si sviluppò con il Nucleo Pedagógico de Antero de Quental (dedicato alla figura di un grande poeta romantico portoghese), il cui scopo era l’allargamento, il miglioramento e la capillarizzazione della cultura nel paese. Lo stesso Agostinho fece in Brasile, promuovendo la creazione di centri di studi accademici dedicati alle radici africane (specie religiose) della cultura del paese. Infine, dedicandosi al compimento dei suoi studi metafisico-religiosi, incentrati soprattutto sull’ecumenismo, egli partecipò al sogno visionario (di diversi moderni intellettuali portoghesi) di una ripresa pacifica dell’idea di impero coloniale luso. Si trattava dell’antico mito del Quinto Império, generatosi con il poeta Bandarra dopo la morte eroica ad Alcácer Quibir (Marocco) del Re Dom Sebastião (O desejado) – in una battaglia alla quale parteciparono anche truppe napoletane –, e poi ripreso da Pessoa (Mensagem). E questo mito si fondeva poi con la straordinaria impresa politico-religiosa (vagamente teocratica) tentata dai gesuiti tra Brasile, Argentina e Paraguay (As séte missões) – e narrata poi nel famoso film Mission. Di tutto questo ho parlato in questa rivista anche nel corso dell’intervista a Miguel Real.

Su queste coordinate si è sviluppata insomma l’intera riflessione di Agostinho da Silva. Essa parte da una rivalorizzazione (di deciso sapore nietzschiano) dell’antica religiosità greco-pagana. Si evolve poi a contatto con il sincretismo religioso afro-cattolico vivissimo in Brasile. Passa successivamente (dopo l’allontanamento dal paganesimo ellenico) ad una ripresa dell’esperienza e della dottrina del Cristianesimo antico, con lo sviluppo dell’auspicio di un rinnovato Cattolicesimo ecumenico totalmente non istituzionale. Ed intanto – arricchendosi delle dottrina religiose dell’intero pianeta (tra le quali il buddhismo) – Agostinho sviluppa una visione filosofico-religiosa al centro della quale vi è l’esperienza integralmente spirituale del divino, e quindi il vissuto tangibile di quest’ultimo. E ciò in una maniera che però privilegia decisamente gli aspetti vitalistici ed immanentistici. Il versante metafisico, contemplativo e visionario di tutto ciò, è comunque l’idea di un ritrovato «Regno dello Spirito Santo», che è tuttavia destinato ad essere tutto storico e terreno. E tale idea converge poi con il mito del Quinto Império e con quello della teocrazia umanistica di stampo gesuitico. Va ricordato però che in questo Agostinho si ispira anche alle teorie del nostro Gioacchino da Fiore, e forse anche (sebbene senza dirlo) ad una delle idee centrali sviluppate da Schelling nella sua visione panteistica di un Regno dello Spirito che sarebbe destinato a chiudere per sempre la Storia (Filosofia della Rivelazione).

Questa è in grande sintesi la visione filosofico- e metafisico-religiosa di Agostinho da Silva. Una visione, come si può vedere, affatto rigorosamente ascetica, e quindi lontana dalla vita e dalla prassi. Anzi essa è sempre così vicina alla vita, alla società, alla pedagogia ed alla politica, da configurare per molti aspetti per davvero un progetto di riforma anarchico-rivoluzionaria della società. A me sembra estremamente significativo che Agostinho esprima in questo una tendenza intellettuale e culturale tipicamente portoghese che forse non ha eguali nella moderna Europa.

Si tratta insomma di un bouillon estremamente fertile e creativo di idee antiche e moderne, di tradizionalismo e modernismo, di religiosità mistico-ascetica e vitalista, di visione politica orientata al valore dell’ordine più saldo e solidale e nello stesso tempo alla più travolgente trasformazione. A me personalmente tutto questo sembra estremamente affascinante a partire da un’esperienza come quella italiana, nella quale ormai tutto sembra essere divenuto rigidamente cadaverico e nello stesso tempo (proprio per le cogenze raccapriccianti imposte da questo rigor mortis) anche mordacemente e gratuitamente rabbioso (al modo di veri e propri zombies).

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