La seconda parte de "La ragazza col pagne"
La famiglia di Umu
«Umu si fa largo tra donne intente a mercanteggiare. Passa accanto al banco. Sfiora il pagne con la mano. Quando i suoi occhi incontrano quelli del mercante, s'avvicina...»
È mattina inoltrata quando Umu rientra a Taouya, periferia est di Conakry. La cour è già in piena attività. Donne spazzano in terra con basse scope di rovo, altre lavano bambini in tinozze d’acqua saponata, altre ancora accendono fuochi davanti alle capanne o stendono panni o s’avviano al mercato. La vedono entrare e la fissano severe. Il trucco sfatto e il vestito sporco e sgualcito confermano fin oltre il necessario i loro cattivi pensieri.
Taouya è una di quelle vecchie corti cintate da bassi muri d’argilla, ormai assediate dai palazzi moderni e dalle bidonville che proliferano ai loro piedi. Fuori, la città nuova, i viali asfaltati della futura metropoli – dell’attuale baraccopoli – folla, traffico, motori, luce elettrica, qualche insegna al neon. Dentro, la vita della corte, che si snoda ancora secondo i ritmi lenti e familiari di un villaggio tradizionale immerso nella brousse.
Chiusa nel suo recinto, la comunità della corte pare indifferente ai ritmi della città, se attorno vi fosse davvero boscaglia la sua vita non sarebbe diversa. All’interno della cour vigono le stesse regole, si consumano gli stessi riti del villaggio d’origine. Ogni famiglia importante, a Conakry, ha radici nella brousse, in un villaggio più o meno lontano. La cour ne è un’appendice, un’emanazione urbana che mantiene col villaggio legami ancora molto saldi; legami che fanno da argine all’avanzare della civiltà nuova, di questo nuovo tipo di convivenza, più estesa, più frenetica, più individuale; confine tanto effimero quanto il basso recinto d’argilla che la divide dalla bidonville arrembante.
La grande famille di cui Umu fa parte (e ne è, in quanto jeune fille, uno dei membri più trascurabili) è composta di parecchie centinaia di persone e la sua vita di corpo è imperniata sull’economia della cour, incentra nella corte le sue funzioni vitali e le sue regole. Fuori dalla corte, in città, i membri della grande famille svolgono vite individuali, hanno occupazioni – stabili o precarie – praticano mestieri, coltivano interessi, qualcuno persino una carriera. C’è chi fa il meccanico, chi il fabbro, chi l’autista; chi tiene un banco di frutta al mercato e chi lavora dentro un ufficio, al ministero o in banca; i ragazzini vanno a tutti scuola. Ma quando, dopo il lavoro o la scuola, uomini, donne e bambini rientrano nella cour, questi ruoli individuali si dissolvono nell’identità collettiva della famille, mestieri interessi e carriere s’annullano nell’ordine gerarchico della tribù.
* * *
Umu s’infila svelta in una capanna e si cambia d’abito. S’avvolge in un pagne, mette via le scarpe coi tacchi, si strucca davanti a un pezzo di specchio appeso a un chiodo. Quella che esce dalla capanna, pochi minuti dopo, è un’adolescente alta e magrissima, braccia e gambe esili come stecchi, avvolta in un semplice pagne ocra tutto sciupato, forse ancora più bella così, senza trucco e senza ornamenti. Lo sguardo fiero, pronto ad affrontare le occhiate taglienti delle anziane, pare appena un po’ appesantito dalle occhiaie della notte bianca, che neanche l’energia dei suoi diciassette anni riesce a mascherare.
Milou la guarda. È alta quanto lei, le somiglia, potrebbe essere sua sorella. Sta lavando un bambino in una tinozza. Accanto, altri due aspettano il loro turno. Umu si avvicina, prende in braccio il più piccolo, lo solleva alto sopra la testa.
“André, petit bandit…” dice sorridendo.
Il bambino, dondolato in aria, ride felice.
“Rientri ora…” Dice Milou.
“Uff… non mi seccare.”
“Tuo padre ti cercava.”
“A che ora?”
“Ieri notte, saranno state le undici. Gli ho detto che dormivi, ma è entrato dentro…”
“Merde!… Be’ se te lo chiede ancora, di’ che ero da un’amica, OK? D’ailleurs, je m’en fous…”
“Ma da dove sei uscita? Non ti ho vista passare.”
“Ho scavalcato, sul retro.”
“Forse è meglio che per il resto della mattina non ti fai vedere.”
“Hmm…,” fa Umu; raccoglie in un pagne il bambino passatole da Milou e lo sfrega per asciugarlo. E’ piccolo, grassottello; si mette a piangere, ma Umu continua a manipolarlo, incurante. Il bambino si cheta subito.
“Senti,” fa Milou, “ce l’hai qualche franco da prestarmi? Vado al mercato, nel pomeriggio…”
Umu scioglie un nodo del pagne e srotola la cocca. Dentro ci sono dei biglietti appallottolati. Ne porge un paio a Milou.
“Dormo un po’. Svegliami quando vai al mercato, t’accompagno.”
* * *
Il mercato di Zabre-Daaga è un po’ fuori dal centro di Conakry, verso il Lac, la laguna d’acqua salmastra nella zona orientale della penisola su cui sorge la capitale. Una grande spianata di tettoie di paglia, tenute su da rami scortecciati. Sotto, su banchi di legno e stuoie di vimini, i mercanti vendono di tutto: cibi cotti, dolciumi, carne, verdura, uova, polli, frutta, farina di miglio, riso e alcoolici, tessuti, borse e pellame, jeans e magliette, scarpe, valigie, pentole e vasellame, utensili vari, scope, orologi, radio, cassette di musica africana. Donne s’aggirano tra i banchi, litigano coi commercianti, gesticolando platealmente, gridano. C’è rumore, fuochi accesi, odore intenso di fumo e di ressa, immondizia, rigagnoli di fango che scorrono tra i piedi della gente.
“Vi siete divertite ieri al Kalaba?” Chiede Milou.
“Hmmm,” fa Umu. Mangiucchia un uovo sodo, che ha appena acquistato per dieci franchi sul banco di una vecchia. “Abbiamo ballato, Denise ha quasi avuto il suo primo uomo…”
“Denise? Ma ha tredici anni…”
“Et alors?… Per essere la prima volta in boite, s’è l’è cavata bene.”
“È ancora un bambina…”
“S’è divertita, le è piaciuto… Potevi venire anche tu.”
“Io?…”
“Avresti fatto la guardia a Denise…” Umu ride. Milou le lancia un’occhiataccia, le dà una spinta.
“Avrei ballato! Che ti credi? Più di tutte voi!”
“E allora perché non vieni? Perché te ne stai sempre chiusa dentro la cour?”
“Oh, beh… La prossima volta verrò.”
“Lo dici sempre…”
Umu e Milou vagano tra i banchi, prese nel flusso. Toccano jeans, scarpe, lasciano scorrere le dita sul tessuto dei pagne. Tra le tettoie scorrazzano ragazzini seminudi che offrono per qualche franco bustine di acqua da bere e sacchetti di arachidi tostate. Vecchi mendicanti coperti di stracci e storpi sorretti da rozze stampelle chiedono l’elemosina. Giovani mutilati accoccolati su bassi tricicli o accovacciati su tavolette di legno a rotelle si spingono avanti a forza di braccia, facendosi largo tra le gambe della gente.
“Dài, Milou,” dice Umu. “Che ci guadagni a obbedire sempre? Non hai diciott’anni tutta la vita. Guarda Annie, Helène… Vuoi diventare come loro? Uno di questi giorni ti daranno in moglie a qualcuno che neanche conosci. Lavorerai, farai dei figli… e a trent’anni sarai vecchia. E’ questo che vuoi?”
“E cosa, se no? Les blancs? Conosci qualcuna a cui è andata bene, con loro?”
Milou acquista un ultimo pezzo di sapone. Guarda nella sporta: un paio di scarpe, burro di karité, dentifricio, uno specchio, un pettine, il sapone…
“Be’, io ho finito. Vieni via anche tu?”
Umu scuote la testa.
“No, io resto. Cerco ancora dei pagne. Ci vediamo a Taouja.”
Si salutano, Milou s’allontana. Umu continua a percorrere gli affollati viottoli che si snodano tra i banchi, immersa nella calca. Attraversa la zona di mercato dove vendono vasellame, pentole, suppellettili, utensili vari. Passa davanti alle venditrici di toh e di pesce affumicato, coi loro fuochi accesi.
Le salta agli occhi all’improvviso, tra stoffe e indumenti, una violenta macchia di colore, buttata lì in mezzo ad altri tessuti; un pagne rosso, rubino, sul banco di un vecchio mercante che chiama i clienti con voce catarrosa.
Umu si fa largo tra donne intente a mercanteggiare. Passa accanto al banco. Sfiora il pagne con la mano. Quando i suoi occhi incontrano quelli del mercante, s’avvicina. Il mercante è un uomo magro, dall’ispida barbetta punteggiata di grigio, un camicione a sacco senza maniche e ruvidi calzoni di tela rimboccati sopra il ginocchio.
“Quanto vuoi per questi pagne?” chiede Umu.
“Trentamila franchi.”
“Trentamila? Oh… ma sei matto? È un prezzo disonesto.”
“È il loro prezzo, figliola. Se ti sembrano troppo cari, posso mostrartene degli altri.”
“Io ho visto gli stessi pagne a Kankan a meno della metà di quanto chiedi.”
“Impossibile, questi vengono da Cotonou, in tutta la Guinea non se ne trovano di uguali.”
Contrattano, alzando la voce. Finiscono con l’accordarsi per ventimila. Umu, distratta, non nota le ragazze che fanno un ampio giro e vanno ad attenderla all’uscita del mercato. Prende i pagne e s’avvia. È solo quando ha superato gli ultimi banchi, e la strada comincia a scendere verso il Lac, che alza gli occhi e le vede, a pochi passi da lei, la piccoletta del Kalaba con cinque amiche.
Ha ancora addosso i segni dello scontro di stanotte, un livido sotto l’occhio sinistro e sbucciature sulle braccia e sulle ginocchia. Niente trucco né vestiti da sera, adesso, ma un semplice pagne fissato al seno e uno sguardo duro che non lascia dubbi sulle sue intenzioni.
Le sei ragazze la accerchiano. La piccoletta si fa avanti, le strappa di mano i pagne appena acquistati. Ha occhi piccoli, labbra serrate leggermente incurvate all’in giù. Una smorfia maschile. Non è grande, ma forte sì, i fianchi larghi, la schiena massiccia e muscolosa, braccia nervose e gambe ben piantate. Stringe in pugno i pagne rossi come un trofeo.
Umu capisce che potrebbe anche finire qui, non è necessario battersi. Ha un sospiro. Quei tre pagne nuovi fiammanti… ci si sarebbe fatta una robe scollata, coi volants, un modellino copiato da un ritaglio di rivista trovato in una botteguccia di coiffure. Sorride, fa mezzo passo indietro, come per ritirarsi; poi invece scatta avanti, afferra i pagne, con un violento spintone atterra la piccoletta e si lancia in una corsa pazza verso il Lac…
* * *
“Te le hanno date, eh?”
Nella stanza illuminata dai neon il gendarme che ha davanti a sé, ritto in piedi, ha il volto butterato, gli occhi rossi dalle congiuntive slabbrate, la bocca aperta in un immenso sbadiglio. Le pale della ventola ruotano lentamente sopra di lei, dandole un senso di vertigine. Umu si protegge gli occhi col palmo della mano, barcolla, riesce a fatica a tenersi in piedi.
“Ti sono avanzati dei soldi, dopo quelli che hai speso per i pagne?” Fa la voce che sembra comandare, lì dentro.
Tre di loro siedono dietro il bancone. Il quarto, in piedi, le gira lentamente intorno e le tocca di quando in quando il fianco, la spalla, il seno, il sesso, tormentandola con la punta di un bastone. Lei lo fissa immusonita, ma non reagisce.
“Ne hai altri con te?”
Umu alza impercettibilmente lo sguardo verso il bancone. E’ esausta. Se quell’interrogatorio si protrarrà ancora per qualche minuto, pensa, non potrà reggere e si sdraierà lì per terra, così com’è. “Non ho niente,” dice, “quello che avevo, l’ho speso al mercato.”
“Sicura?”
Umu lascia scorrere uno sguardo vagamente divertito sui gendarmi. Malgrado la stanchezza, ha un accenno di sorriso, più con gli occhi che con le labbra. Dove vuoi che li metta, comandante? Dove potrei nasconderli, nuda così? Non mi vedi?
Silenzio. È forse il suo modo di rispondere, quell’aria sfinita ma non spaventata, che li irrita. Non sono soddisfatti.
“Peccato che non hai denaro,” fa la voce. “C’è una multa da pagare.”
Il gendarme accanto a lei si fa più vicino. I colpetti sull’anca s’intensificano. Sente la punta scorrerle tra le scapole, scendere lungo la schiena, tra le natiche. Poi il gendarme fa un mezzo giro, le si pianta davanti, vicinissimo; quel viso butterato dagli occhi rossi a pochi centimetri dal suo.
“Puoi pagarla?” Fa la voce.
Fiato amarognolo che sa di cola. Umu spinge lo sguardo oltre la faccia butterata.
“Se l’hai fatto con quel vecchio, puoi farlo anche con noi…,” dice la voce. “C’è una stanza, di là…” Indica il retro, dove sono le celle.
* * *
Non dura molto, ma è faticoso, col vecchio è stato più semplice e più pulito. Poi, ancora la voce. Parla sempre e solo lui, il comandante:
“Per questa volta ti lasciamo andare,” dice, e Umu smette di ascoltare.
Il comandante continua a parlare, la sua voce risuona sicura nella cella dove gli uomini si rivestono. Impartisce ordini che a Umu non interessano più. Il gendarme che le è davanti raccoglie il pagne da terra e glielo porge.
“Copriti,” dice la voce, “vattene.”
* * *
In strada è buio. Lo spoglio edificio della gendarmeria affaccia su una via deserta, il cielo è nero di nuvole e nell’aria ristagna ancora odore di pioggia. Il fondo sabbioso della strada disegna una striscia chiara, quasi bianca, che si perde tra i vicoli. La polvere umida s’attacca sotto le piante dei piedi e l’aria fresca la fa rabbrividire. Percorsi pochi metri, si siede su un gradino. S’addossa al muro e resta lì, immobile, a guardare le casupole dalle imposte chiuse ammassate in disordine nell’oscurità. È tanto stanca che non s’accorge nemmeno d’addormentarsi e quando si sveglia il sole è già alto. Donne spazzano in terra. Basse scope di rovo grattano lo sterrato, sollevando piccole nuvole di polvere sugli spiazzi davanti alle capanne. Cantano, mentre lavorano, voci lente e monotone intonano nenie che Umu conosce a memoria.
Si stacca dal muro, sbadiglia, si stiracchia come un gatto. S’avvia zoppicando verso la cour di Taouja.
(2. Fine)