Anna Camaiti Hostert
In vista delle elezioni del 4 marzo

Noi, gli esclusi

Dopo trent'anni di egemonia culturale berlusconiana, gli "intellettuali" sono diventati solo pupazzi faziosi da esporre nei talk. Al soldo di politici corrotti, senza etica, bugiardi. È l'Italia, bellezza...

Alcuni giorni fa rileggendo un divertente e provocatorio pamphlet di Mario Perniola, Berlusconi o il ’68 realizzato pubblicato da Mimesis nel 2011, ho ritrovato alcuni ragionamenti davvero stimolanti che mi hanno fatto riflettere. In una frase espressa durante la rivoluzione francese da Jean-Baptiste Coffinhal vice presidente del tribunale rivoluzionario che condannò a morte Antoine-Laurent Lavoisier e di cui fu vittima lui stesso pochi mesi dopo, La republique n’a pas besoin de savants (“La repubblica non ha bisogno dei saggi”), Perniola individua le radici storiche dello spirito del ’68 che fece dell’odio per gli intellettuali, considerati un pericoloso nemico della classe operaia al pari del capitalismo, una sua bandiera.

Ma cosa ha a che vedere Berlusconi con il ’68? Perniola scrive che Berlusconi rappresenterebbe proprio la realizzazione dei contenuti del programma di quel movimento di cui il primo è proprio «l’idea che la politica può essere fatta da tutti e non richiede nessuna preparazione specifica nessuna scuola di partito e nemmeno lo studio di Tucidide, Tacito, Machiavelli Guicciardini, Botero, Hobbes, Gracian Clausewitz… Non diversamente – continua più avanti il filosofo – Berlusconi pensa che chiunque possa esercitare le funzioni di deputato, sottosegretario e ministro e che dipende da lui il deciderlo». Perniola si chiede come questo paradosso possa essere avvenuto e come Berlusconi, in apparente antitesi alle idee del movimento del ‘68, di cui quest’anno ricorrono i cinquant’anni e in cui Perniola stesso ha militato, possa averne realizzato i propositi. «Eppure – si risponde questo acuto intellettuale scomparso di recente – non è difficile trovare in lui quella volontà di potenza, quel trionfalismo farneticante, quella estrema determinazione di destabilizzare tutta la società da cui il Sessantotto fu pervaso. Fine del lavoro e della famiglia, descolarizzazione, distruzione dell’università, deregolamentazione della sessualità, contro-cultura, discredito delle competenze mediche e crollo delle strutture sanitarie, ostilità nei confronti delle istituzioni giudiziarie, considerate come repressive, vitalismo giovanilistico, trionfo della comunicazione massmediatica, oblio della storia e presentismo spontaneistico, tutto ciò è ormai diventato realtà. Con Berlusconi si chiude un periodo storico iniziato negli anni Sessanta nel quale le basi logiche del pensare e dell’agire sono state sostituite da un sentire collettivo manipolato, delirante, lunatico e stravagante». E più avanti sempre riferendosi a Berlusconi scrive «E per quanto dal punto di vista personale sembra non abbia vissuto il fortissimo conflitto generazionale di quel periodo tuttavia è stato in consonanza con la negazione di ogni autorevolezza della tradizione intellettuale che comincia a manifestarsi in quell’epoca e che cresce poi ininterrottamente lungo tutto questo quarantennio».

E dall’accusa, mossagli da molti per queste sue affermazioni, di essere un intellettuale “aristocratico”, Perniola si difende affermando che il vero motivo non risiede certo nel fatto che nutre stima della nobiltà italiana, che infatti disprezza e che certo non costituirebbe un governo migliore del presente; che anzi ne costituirebbe uno molto peggiore, ma proprio nel fatto di essere sempre stato un «sostenitore dell’autorevolezza della conoscenza». «Chi fa il nulla dietro di sé, ha il nulla davanti a sé: in altre parole se si vuole costruire davvero il futuro bisogna nello stesso tempo ripensare il passato». Come si vede, il richiamo del filosofo alla parola autorevolezza rimanda a una tradizione culturale che oggi sembra totalmente scomparsa dall’orizzonte politico ed etico attuale di tutto l’occidente. Cosa che conduce all’assenza di una classe dirigente capace di costituire un’adeguata rappresentanza degli elettori. Lo si vede in America, lo si vede in Italia.

Se ci fermiamo all’Italia, tuttavia, e andiamo indietro al nostro passato, la figura dell’intellettuale, da Gramsci in poi, ha rivestito un’importanza fondamentale nell’elaborazione della strategia politica soprattutto della sinistra, ma non solo. In anni recenti, viceversa, la cultura è stata mortificata in tutti i suoi aspetti e forme, da tutti i partiti dell’arco costituzionale. Gli intellettuali sono stati relegati in un limbo, una sorta di dimensione subalterna e irrilevante in cui le loro opinioni non sono state neanche prese in considerazione, se non come cassa di risonanza di quello che i vari conduttori dei talk show televisivi, in genere al carro del politico di turno, propongono. Paria che hanno perso qualsiasi autorevolezza e autorità e che vengono fatti apparire semplicemente come autoreferenziali. Sono i personaggi dello spettacolo del momento, gli opinon leader. I filosofi, gli storici, i sociologi, i creatori del pensiero politico, stimolo di una classe dirigente viva e vitale è come se non esistessero, non servissero a niente. Quello che una volta creava e provocava il dibattito, l’intellettuale, ormai divenuto solo una brutta parola obsoleta, che ormai nessuno pronuncia più, non viene neanche consultato. Troppo difficile il suo linguaggio, troppo complesso il suo argomentare.

Gli intellettuali sono noiosi. Non fanno spettacolo, non fanno audience. E soprattutto alcuni pensano in modo indipendente. Sono pericolosi appunto. E se per caso appaiono in qualche trasmissione, lo fanno come mosche cocchiere, chiamate a rinforzare la filosofia del programma, già preconfezionata e già decisa in partenza. E, in genere, sono quelli che non hanno un pensiero originale. Ciò mortifica ogni evoluzione dei processi culturali e priva il paese di una guida capace di creare una rappresentanza adeguata a rapportarsi ad una parte dell’opinione pubblica che oggi si sente esclusa, delusa. Che non capisce e si sente emarginata, bistrattata. Forse la parte migliore. Sicuramente quella più interessata alla salute e alla vitalità della democrazia. Da un lato dunque manca la presenza degli intellettuali, dall’altro la presenza di una classe dirigente che si possa definire tale. Una situazione preoccupante che ormai ha raggiunto un limite assolutamente invalicabile.

Che in Italia non abbiamo mai avuto una classe dirigente non è cosa nuova. Fin dall’inizio della nostra storia, dall’Unità nazionale, abbiamo avuto politici che hanno pensato per sé e mai al bene comune. Abbiamo cominciato con Crispi coinvolto quasi immediatamente con lo scandalo della Banca Romana e non abbiamo mai smesso di avere uomini e partiti politici ladri e corrotti. Noi abbiamo avuto delle élite di potere, ma non una classe dirigente. Camarille. Queste élite non sono state mai capaci di trasformarsi in classe dirigente. Esempi anglosassoni come la regina Elisabetta i che sacrificò anche la sua vita privata per quello che pensò, a ragione o a torto, essere il bene dell’Inghilterra non ne abbiamo mai avuti.

Il familismo di stampo mafioso è stato quello che ha animato e anima l’agire dei politici italiani e di quelle élite che hanno sempre comandato e che da sempre si vantano di essere tali, di avere potere e ricchezza e di esercitare un potere incontrollato sulla massa.

Che infrangono le regole e se ne fregano degli altri. Che trovano lavoro ai loro figli a discapito del resto dei cittadini comuni i cui figli sono costretti a emigrare all’estero. Che approfittano della loro posizione per arricchirsi. E che alla fine sbattono in faccia alla gente comune i loro privilegi, perché sanno che tanto le cose sono sempre andate così. E non cambieranno.

Così, per rimanere sull’attualità, abbiamo proprio in questi giorni due esempi dell’arroganza di questa élite. Che comincia con il compiacimento di fare parte di un gruppo ristretto e si estende poi alla naturalità dell’idea che certi privilegi sono dovuti in base a qualche principio divino. In realtà sono rivelatori di una mentalità e di un costume. Proprio di pochi giorni fa è l’articolo di un decano del giornalismo italiano, ormai un po’ senile, che, intervistando il ministro dell’Interno, scrive e si compiace della sua familiarità con il personaggio, senza pensare che se il ministro si reca a casa sua per dialogare con lui, a noi cittadini non interessa assolutamente niente. O ancora un corrispondente negli Stati Uniti dello stesso giornale, che, intervistando un autore che ha scritto il libro del momento, si vanta di essere suo amico e suo vicino di casa in una zona esclusiva di New York. Di nuovo particolari che a noi, gente comune, davvero non interessano. C’è un onanismo compiaciuto in queste persone le quali, sebbene comprendano che fare parte di un’élite senza classe dirigente è un male, non resistono alla tentazione narcisistica di mostrare che vivono e godono di privilegi che si hanno solo se si vive entro il cerchio magico dei potenti. Che dunque proprio per questo, non hanno una chiara visione dei fatti che dovrebbero riferire, perché semplicemente sono abbagliati dal potere a discapito di tutti gli altri. Inoltre andare contro i potenti richiede coraggio e spesso questo comportamento può essere pericoloso. È più comodo e remunerativo, dunque, anche se meno coraggioso e meno etico, brigare per far parte delle élite del potere.

In Italia quello che Spielberg ha descritto nel suo ultimo film The Post non sarebbe mai potuto accadere. Non sarebbe mai accaduto che una signora dell’alta borghesia, amica di tutti i potenti del momento, inclusi quelli che sedevano alla Casa Bianca, proprietaria di un giornale come lo Washington Post, una volta venuta a conoscenza di certe informazioni, tenute nascoste all’opinione pubblica, non esitasse a pubblicare le prove delle loro malefatte, mettendo a repentaglio il suo giornale e voltando le spalle ad amici coinvolti in pieno in quei maneggi di cui la gente era stata tenuta all’oscuro. Testimonianza di una classe dirigente ancora con qualche principio morale.

Devo dire che dopo anni di passione per la politica e il dibattito che essa suscitava nella speranza di possibili cambiamenti mai avvenuti, sono addivenuta alla conclusione che non solo non mi sento affatto rappresentata da questa classe politica ignorante, approssimativa che manca completamente di principi etici, ma ne sono disgustata. In Italia, quelli che dovrebbero rappresentarmi non hanno gli strumenti per analizzare minimamente il reale che hanno di fronte. Si improvvisano politici senza averne la capacità critica, etica, perfino intellettiva. Così, populismi di ogni genere si lanciano in analisi che mettono insieme il sacro e il profano e fanno dell’iperbole una realtà con il pericolo di allontanare la capacità di comprendere e far comprendere agli elettori i processi reali e di prendere decisioni adeguate. Alcuni poi sono razzisti e innescano nel paese meccanismi pericolosi per la vita democratica. I partiti tradizionali accusano gli avversari di commettere dei reati e ne commettono loro stessi di uguali se non di peggio, rivendicano riforme che non hanno mai fatto, o ne annunciano altre che sanno già che non potranno o non vorranno fare. Alcuni poi si dividono in piccole formazioni in cui quelli che hanno portato alla rovina quel partito per la loro incapacità e per la volontà di compiere una riproduzione del gruppo dirigente al livello più basso, estromettendo non di rado gli intellettuali, la cultura, e impoverendo la classe dirigente del paese, si ritrovano in prima fila come rappresentanti del nuovo. Su tutti grava l’ombra della disonestà e del ladrocinio eretto a sistema. In una parola tutti questi mancano di quella dignità che, avrebbe detto ancora Perniola, «non si possiede semplicemente per il fatto di appartenere alla specie umana, ma è un esercizio di autocontrollo e di perfezionamento di se stessi insieme ad uno sforzo continuo per aiutare gli altri. Bisogna meritare di essere umani». E francamente, e con grande dolore, a me non sembra che l’attuale classe politica abbia queste caratteristiche.

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