Periscopio (globale)
Follia in musica
Una progressione armonica con un tema melodico su cui l’esecutore poteva improvvisare, dando luogo a variazioni di notevole virtuosismo: è la “follia” seicentesca. Un bel Cd la ripropone
Un pizzico di follia, dicono, è necessario alla vita di tutti i giorni. Il genio è sempre abbinato alla sregolatezza, non si sfugge. Oppure no: sappiamo bene che ci sono stati e ci sono tanti geni tranquilli, apparentemente impaniati in un opaco grigiore. Chissà dunque dove si situa la verità, e se il genio non risponda piuttosto a delle leggi sue proprie, in cui follia e senno interagiscono in modo del tutto originale. Una cosa è certa, tuttavia: dalla follia prende le mosse, grazie a don Chisciotte, tutta la tradizione del romanzo moderno. E la follia è ben presente, sebbene ciò sia forse meno noto, anche alle origini della musica moderna, nel primo Rinascimento, quando in alcuni testi teatrali portoghesi (un autore fra e su tutti: Gil Vicente) si comincia a menzionare una danza popolare di matrice contadina e pastorale designata appunto quale “folia”, in quanto estremamente vivace e dissennata. Questa danza avrà grande successo e comincerà a propagarsi in tutta l’Europa come una benigna infezione; e quando, sul finire del Cinquecento, passa al repertorio di corte, perde l’originale dimensione coreografica e viene decisamente normalizzata, in modo che possa rientrare in un canone più serio e ingessato, con uno schema ben preciso. Quella che è stata poi definita “tarda follia” e come tale è giunta fino a noi è una progressione armonica con un tema melodico su cui l’esecutore poteva improvvisare, dando luogo a variazioni di notevole virtuosismo. Tra Sei e Settecento sono moltissimi i compositori che se ne sono avvalsi, da Lully a Marais, da Alessandro Scarlatti a Couperin, da Corelli, autore di una delle più celebri Follie, l’Aria della Follia di Spagna, a Vivaldi, da Bach nella sua Cantata dei contadini a Salieri a Händel, e non di rado l’hanno mescolata o contaminata, se si preferisce, con generi affini come la passacaglia e la ciaccona. Nell’Otto e Novecento andrebbero citati ancora Giuliani e le sue Variazioni sul tema della Follia di Spagna, Liszt, Ponce e Rachmaninov.
Questa breve premessa mi è sembrata indispensabile per introdurre un bel CD di recupero storico e filologico dal titolo Yo soy la locura, recentemente registrato per la Continuo Records – che ci sta peraltro abituando a prestazioni tecniche ineccepibili – dall’ensemble Aria di Follia. Il gruppo è costituito da Simone Colavecchi alla chitarra barocca e alla tiorba, Luigi Polsini alle viole da gamba e Paolo Rossetti Muritto ai tamburi a cornice, cembali, castagnette e foglie, coadiuvati e guidati nelle loro evoluzioni strumentali dalla voce incredibilmente duttile e versatile di Theresia Bothe.
Nel CD sono ripresi brani di musicisti del Seicento, tra i quali Monteverdi, Frescobaldi, Barbara Strozzi, compositrice e soprano a un tempo, Caccini e Kapsberger, cantati in italiano; il mondo di espressione ispanica è invece rappresentato da Juan Arañés e soprattutto da Juan Hidalgo, musicista che alla Corte di Madrid collaborò attivamente e in più occasioni con Calderón, e che è autore, appunto su testi di Calderón, della più antica opera spagnola, Celos aun del aire matan, e di varie, notevoli zarzuelas, fra cui La estatua de Prométeo, sempre su base calderoniana, e Los celos hacen estrellas, in cui è complice di un altro grande drammaturgo dell’epoca, Vélez de Guevara. Chiudono il disco due splendide arie della tradizione sefardita. A farla da padrone, nelle immagini e negli accostamenti metaforici, è naturalmente l’amore, nelle manifestazioni più estreme ovvero in quelle forche caudine di cui ogni innamorato ha fatto l’esperienza diretta; ai versi “che voi siete per mia sorte / la mia vita e la mia morte” dell’Amante felice di Giovanni Stefani rispondono, quasi per un’inevitabile eco, quelli di Claudio Monteverdi in Quel sguardo sdegnosetto: “…feriscami quel sguardo / ma sanami quel riso”. Rapimento amoroso quale forma estrema di follia, insomma. Mentre in Così mi disprezzate di Girolamo Frescobaldi riecheggia l’empito vendicatore e un po’ sgradevole dell’amante respinto e irriso: “Non nego già ch’in voi / amor ha i pregi suoi / ma so che il tempo cassa / beltà che fugge e passa, /se non volete amare / io non voglio penare.” Il risentimento amoroso, che porta a una forma di follia rancorosa, è al centro anche del canto sefardita Adio querida, dove il rimprovero ruota intorno all’insensibilità alla sofferenza altrui: “Tu madre cuando te parió / y te quitó al mundo / corazón ella no te dio / para amar segundo. / Adio, adio querida / no quero la vida / me l’amargastes tú.” Solo che qui, al di là dello schermo sentimentale, l’insensibilità rappresenta, quasi per sineddoche, quella di un intero paese, di una patria ingrata, in un ben dissimulato atto d’accusa degli ebrei contro la Spagna che nel 1492, con il famigerato decreto dei re Cattolici, li aveva espulsi dopo averli non solo amareggiati, ma depredati.
È una raccolta mirabile, in cui non c’è davvero spazio per la noia o la ripetitività, tanto ampio è lo spettro percorso dalla prodigiosa voce della Bothe, che si muove con sicurezza tra gli estremi, passando senza ambasce dal sussurro al grido, dall’allegria alla disperazione, dalla spensieratezza alla profondità, dalla lentezza all’estrema velocità, dalla dolcezza all’ingiunzione militare, con un’interpretazione che pur restando, come dicevamo, accuratamente filologica non disdegna di far apparire in filigrana esperienze desunte dal jazz e dalla musica contemporanea. Il che fa sì, e non è poco, che questa musica apparentemente datata e lontana torni invece a parlarci, con testi a volte d’incredibile attualità e melodie sorprendenti per la loro freschezza.