Alla Galleria Studio Arte fuoricentro di Roma
Ennio Calabria, l’icona dell’essere
Roberto Gramiccia rende omaggio a Ennio Calabria, maestro inquieto del figurativo, con una mostra che scava alla radice del nostro rapporto con l'immagine di noi stessi: “Sum ergo cogito”
Sum ergo cogito. Sono dunque penso. È il titolo che battezza la mostra, aperta fino al 9 marzo nella Galleria Studio Arte fuoricentro di via Bombelli 22, a Roma, con cui Roberto Gramiccia, chiama in scena Ennio Calabria, grande maestro dell’arte di figura, chiedendogli di far da apripista ad una passarella di quattro autori di varie generazioni che praticano con ostinata creatività il mestiere della pittura. La celebre formula preilluminista di Cartesio ribaltata nel suo opposto, un grido che rivendica il primato dell’esistere come unica via d’uscita possibile dalla deriva disumana di spaesamento e alienazione del mondo di oggi.
Alle pareti i volti di quattro celebri personaggi danno sostanza inquietante e incalzante a quell’invocazione. «Io sono e da me nasce la ragione che ha guidato le mie parole a ripercorrere il labirinto di ogni mistero»: sembra ripeterci J. Luis Borges, lo sguardo pacato e dolente che filtra il chiarore opaco di una cecità quasi totale, le labbra increspate in una smorfia di saggezza e dolore, un’ombra scura che invade e sorregge il corpo come uno scheletro, la pelle di una spalla che svapora di colori tenui come un costume illanguidito da Arlecchino, sul costato una macchia rossa che indica col suo calore l’Aleph della sua vita, di tutte le vite possibili. Ecco «esistere», l’essenza di vate e giullare di Borges, può essere tutto questo, quello che le pennellate d’Ennio Calabria, immerse in un liquido di colore ed emozione viva, ci rivelano e quello che in noi fanno vibrare.
O invece a dirci quel «sum» come radice primaria che precede e genera l’ordine sistematico del logos, può essere quel turbine sfocato di acqua tempestosa in cui galleggia, riconoscibile, il volto esangue e apparentemente distaccato di Proust, un’onda che per dialogare con lui prende in prestito il muso di una foca o di un orso, il gioco della memoria e del tempo come scivolare via tra il mare e le nuvole di un’interminabile ciclo di trasmutazione. O ancora può essere la faccia da cammeo vittoriano del compositore Hector Berlioz, un rivolo d’ombra anche qui che dall’occhio destro irrora il busto e sfregia la guancia, in una cicatrice che ci riporta gli echi del Carnevale ma anche il tormento del patto del diavolo del suo Faust. O infine i tratti da uomo qualunque invasato da certezze divine e furbizie terrene di Ahmadinejad, che lo trascinano e ci trascinano in un caos di buio e guizzi minacciosi e vitali, come fosse un fiore di selvaggia ostinazione cresciuto nel deserto: è stato un leader del fondamentalismo iraniano, che ha destato panico e apprensione in Occidente ma ora è quasi dimenticato, la fantasia di Ennio Calabria se n’è impadronita come un segnale del proprio tempo, quel magma in cui nuota da sempre, un qualcosa che sta prendendo forma ma non sai quale e questo ti crea curiosità e sgomento.
Il quinto quadro è un autoritratto (nella foto accanto al titolo), il meno esposto tra i tanti in cui Ennio Calabria si è cimentato, forse il più forzato, una confessione quasi senza filtro, un mettersi a nudo che ci sbatte addosso una necessità ineludibile di darsi voce, lasciare che la pittura decida da sola il flusso di coscienza e incoscienza che un vero artista si porta come una croce dentro e da dentro deve, deve non c’è altra parola, imporsi alla tela. Il volto, gli occhi sbarrati verso il basso, e la labbra strette attorno a un sigaro acceso fanno da specchio a una duplice sensazione di sgomento infantile e ribellione .Il petto è nudo, dalle spalle penzola la tuta da lavoro che ha appena spalancato, al centro sanguina e incupisce una ferita ancora aperta. La cicatrice di un parto che è appena avvenuto e a cui sembra aggrapparsi, chiedendo il conforto di un abbraccio, una figurina di bambina appena abbozzata. Ecco il mio femminile, che farne se mi spaventa e mi affascina allo stesso tempo?, si interroga e ci interroga Ennio Calabria con forza della sua pittura, che da lui nasce e a lui ritorna sempre anche quando è ad altre figure, altre icone che rende omaggio. Perché è da se stesso che trae la sua verità, come il Marco Polo di Calvino, che di qualunque città parli al Gran Khan è sempre la sua Venezia che ci sta raccontando.
È questa certezza che alimenta la tesi anticartesiana che Calabria ha voluto come fulcro di questa mostra, e del manifesto sulla pittura e la scultura che con l’Associazione in tempo ha lanciato, chiamando alla riscossa che pratica queste tecniche di tradizione date in via d’estinzione, e offrendo appigli agli uomini disorientati del mondo d’oggi, che senza più scudi ideologici e forti retaggi culturali devono imparare a riconoscersi come archivi viventi e artefici di se stessi. Guardarsi dentro ma mai dimenticare di guardare fuori, come Ennio Calabria ci invita a fare e ha sempre fatto. Testimoni preziosi tutti i suoi quadri. Come le tre tele che chiudono il percorso d’iniziazione alla comprensione e allo sguardo di questa mostra. Quell’inquietante allegoria del rumore che ormai nasconde in un chiacchiericcio indistinto persino il mistero della fine: Garrula morte (nella foto sopra). Quel tenebroso groviglio notturno di corpi, che fanno bussola di una sola, insensata e modaiola fonte di luce: La luce del telefonino. Quello scompiglio di carte e di gesti che precipita in un vortice di non senso e identità smarrite il nostro Parlamento: Vento imprevisto, rielaborazione di una tela e di un intuizione profetica abbozzate 9 anni fa.
Una immersione in una pittura totale. Nel solco della sfida che il critico e saggista Roberto Gramiccia ha deciso di lanciare, chiamando la stessa galleria del Portuense, piccola e fuori mano ma di rigoroso impegno, ad ospitare altri tre autori di generazione più recente: Valeria Cademartori, Paolo Assenza e Nicola Rotiroti. E a riconoscersi in un polemico titolo di pittori-pittori.