Giuseppe Ceretti
Il racconto di una storia vissuta

Amore & volontariato

Non c’è un minuto della nostra esistenza che non abbia un valore unico, irripetibile: è da questa considerazione che deriva il senso della vita. Di qualunque vita

Quando mi chiedono le ragioni che mi hanno spinto a svolgere volontariato in un’associazione che assiste i malati terminali, sia pure quale volontario della penna, confesso che, dopo anni, non rispondo mai d’istinto. Perché avverto, anche negli sguardi più sereni, un interrogativo: qual è il senso di una mano tesa a chi sa che la sua vita è prossima alla fine? Non avendo nel mio bagaglio alcuna fede, se non nella ragione dell’uomo, di questi tempi me la passo assai male.

Così, dopo una lunga pausa e sempre che l’interlocutore nel frattempo non abbia desistito, mi vien da rispondere che non c’è un minuto della nostra esistenza che non abbia un valore unico, irripetibile. Un lasso di tempo che può contenere e svelare il senso di una vita.

C’è chi abbozza dinanzi a tale replica e, sia pure con cortesia, passa ad altro.

Parole, non son altro che parole, recita la strofa di una canzone di troppi anni fa. Come si può dare un senso compiuto a quel minuto, far capire che quel minuscolo lasso di tempo può comprendere talvolta persino lo svelamento di un’intera vita con i suoi contrapposti sentimenti?

Faccio ricorso ai disordinati studi della mia vita, al mestiere, per trovare la chiave di volta, la risposta che pure avverto d’avere dentro di me. Invano.

Poi accade di colloquiare con una volontaria, l’intelligente e sensibile Laura (uso un nome di comodo), per tutt’altri motivi e di sentirsi raccontare una storia e capire che la risposta è lì, sotto i miei occhi, basta solo volerla vedere.

La ripropongo, come mi è stata narrata, in prima persona.

* * *

Un pomeriggio mite di settembre vidi l’uomo per la prima volta e mi colpì. Prendeva il sole sul terrazzo, seduto ben eretto sulla carrozzella. Tempie brizzolate a incorniciare un volto dal sorriso dolce e insieme fiero di chi non ammette sconfitte. Eppure la sconfitta era lì, dietro l’uscio, e lui lo sapeva. Ma che ci restasse! Intanto c’era ancora nuova vita da godere.

Quale vita lo scoprii il sabato successivo all’apparire della donna. Avevo appena terminato il pranzo con le infermiere e i medici quando lei, anche essa in carrozzella, venne a prendere il caffè con noi.

Poteva avere 55/60 anni, ben portati. Due occhi bellissimi e penetranti parevano essere il tutto in quel volto affilato dalla pelle bianchissima. Poche parole, ma il desiderio evidente di mostrarsi ancora capace di simpatia e comunicazione. Anche con le mani, che muoveva con piccoli gesti armoniosi. «Alle mani – mi disse avendomi sorpresa a fissarle – ho sempre tenuto molto e lo smalto alle unghie lo so dare ancora senza sbavature». Erano perfette.

Mezz’ora dopo era sul terrazzo dove lui si metteva di solito, le carrozzelle vicine. Quando mi vide arrivare con la tazza di caffè, fece cenno d’avvicinarmi. Due parole di presentazione e di nuovo il gioco delle mani che, con arte femminile, parevano muoversi come libellule, solo su leggermente indecise su dove posarsi.

Capii subito, o piuttosto avvertii nell’aria quel clima tra l’intimidito e il magico che accompagna l’attrazione di un essere verso l’altro, quasi come uno stato di irrealtà che anticipa gli avvenimenti del cuore.

Colsi gli sguardi: inequivocabili. Mi sentii commossa pensando alla forza dell’amore che ti afferra perfino quando sei in lista d’attesa per l’ultimo viaggio.

«Chissà quanto tempo potremo stare ancora insieme io e il mio… – mi disse aggiungendo dopo una pausa – collega, ma è bello, è una fortuna anche così».

* * *

Sono trascorsi un paio di mesi e la coincidenza vuole che mi trovi con Laura proprio sul terrazzo. Dopo avermi raccontato la storia che ho appena riproposto, aggiunge: «L’uomo e la donna non ci sono più e mi mancano. Se ne sono andati via, leggeri come due libellule: ne sono certa, ad ali intrecciate».

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