A proposito de "La lingua che ospita"
Parole di confine
Confine, ibridazione, impurità: come entrano nella letteratura questi concetti legati alle migrazioni costanti? Un saggio di Paola Zaccaria analizza l'uso della lingua come strumento di identità
Nella seconda edizione de La lingua che ospita (Meltemi, 2017), Paola Zaccaria pluralizza le coordinate indicate nel sottotitolo, Poetiche, politiche, traduzioni, per restituire complessità alle pratiche che partono dal border, della condizione della soglia, del confine, dell’ibridazione, dell’impurità. Il saggio propone un itinerario attraverso un insieme di esperienze teoriche e artistiche disorganiche e destabilizzanti rispetto a ogni possibile forma di classificazione, in grado di opporre ai concetti di sicurezza, frontiere, purezza, le forme mobili legate alla extra-territorialità e alla trans-territorialità. L’autrice si pone in dialogo con una costellazione di testi, a partire dalle opere di Edouard Glissant, Toni Morrison, Rosi Braidotti, Grace Paley, Assia Djebar, Fatema Mernissi, Robin Morgan, Gloria Evangelina Anzaldúa, Don deLillo fino a Patti Smith e Virginia Woolf.
A partire dalla definizione di utopianism del teorico della fantascienza Darko Suvin, termine con il quale si intende non tanto la costruzione di forme e progetti utopici chiusi, circoscritti, quanto un orientamento verso un insieme di pratiche volte alla costruzione di nuovi orizzonti di senso, l’autrice esplora alcuni testi che hanno la capacità di concepire e promuovere un processo continuo di trasformazione volto ad accogliere immagini alternative del mondo. Prendendo come strumento d’analisi il concetto di figurazione, Zaccaria si concentra dunque sulle immagini dotate del potere di fissare non tanto i concetti, quanto i processi, di mettere in evidenza il movimento stesso verso l’altrove, la tensione verso lo sconfinamento.
Al centro di questa ricerca si situa la poetica della scrittrice, teorica femminista e new mestiza, Gloria Evangelina Anzaldúa (nella foto), con la quale il saggio si pone in costante dialogo, e le cui ‘figurazioni’ permettono di immaginare «cartografie mobili», spazi segnati dalla possibilità continua della metamorfosi. Nella parola neplanta in particolare – che nell’idioma náhuatl (parlata dalle popolazioni indigene prima di Colombo) significa ‘tierra entre medio’ e che nella poetica di Anzaldúa indica la condizione di liminalità, uno stato continuo di dislocazione nella soglia tra vecchie e nuove visioni – Zaccaria individua la possibilità di immaginare uno spazio psichico animato dai processi di transizione e trasformazione. Da questa prospettiva l’autrice considera paradigmatica l’appartenenza di Anzaldúa ai chicanos, ai messicani, cioè, che vivono nel sud-ovest degli Stati Uniti, o come migranti, legali o clandestini, o come discendenti delle popolazioni messicane assoggettate agli Stati Uniti col trattato di Guadalupe Hidalgo del 1848.
La lingua dei chicanos è una interlingua in costante trasformazione, un incrocio di lingue (inglese, spagnolo, náhuatl e talvolta francese), e di culture (atzeca, spagnola, messicana, americana e africana), ed è marcata da una forte instabilità e non omogeneità (tale per cui di volta in volta è definita manito, californio, tex-mex.). Zaccaria osserva la lingua chicana non solo dal punto di vista delle sfide traduttive, ma anche come laboratorio di pratiche linguistiche e culturali in grado di generare prospettive multiple, di sfidare il confine e di fare esperienza continua di questo attraversamento (crossing). L’esperienza del neplanta, che ha origine da questa condizione materiale della frontiera, consente di immaginare uno spazio nel quale la trasformazione, lo stare nella soglia, diventa qualcosa di progressivamente familiare, dove è possibile pensare alle comunità, ai corpi, alle identità, non come qualcosa di già dato ma in quanto forme sempre in costruzione, segnate nel profondo dalla pratica del nomadismo.
La lingua che ospita non è dunque solo, come intuitivamente sembra suggerire il titolo, la lingua del traduttore che si sforza di accogliere la lingua altra nella propria, ma sembra svelare piuttosto un atteggiamento, un modo di porsi nei confronti dell’altro, un «collocarsi accanto» che non si sottrae all’ascolto e all’interrogazione. L’invito dell’autrice a «inoltrarsi nella traduzione» assume in questa prospettiva le sembianze di atto politico, una pratica in grado di mettere in scena una drammaturgia della traduzione che assuma la differenza nei termini di un incontro, e che tanto più si rivela necessaria in un’epoca che sembra tornare a ripiegarsi nei termini brucianti di nazione, bandiera, identità.