Arturo Belluardo
Storia di un amore alla fine

L’uomo in ammollo

«Aspettavi che io mi comportassi da uomo, che mi alzassi e me ne andassi, che rispettassi i tuoi desiderata. Ma io ero l’uomo in ammollo, creatura di acqua di corpo, inerte infingardo»

La terra crepitava. Gli aghi di pino mi si spezzavano sotto il culo e la corteccia rugosa mi penetrava la schiena. La resina delle conifere si divaricava sotto i raggi obliqui del tramonto, laccava il mio sudore rappreso, il mio sudore acuto e dolciastro che arricchiva l’angolo tra le mie cosce e la base del cazzo; un tempo emanava intimità condivisa, adesso lo sentivo cagliarsi, diventare latticello stridulo, lo sentivo urlare: Voglio andare via da qui.

“Dobbiamo parlare”.

Quegli staffili ti si erano proiettati fuori dalla bocca, sospinti dal tuo alito infetto, dai tuoi denti giallastri, refrattari al filo interdentale, dal tuo Rhoipnol, dal tuo Xanax, dal tuo Tranquirit, dal tuo Serenase, dal tuo Prozac.

“Dobbiamo parlare”.

E i due proiettili scuri mi avevano messo KO contro il tronco del pino, un uno-due alla Rocky Balboa, stomaco-mento; un refolo di siero di bufala inacidito mi era salito tra i denti, macchiandomi le carie.

“Dobbiamo parlare”.

E mi avevi crocifisso, non mi ero seduto, ero stramazzato ai piedi dell’albero.

Neanche in casa.

Mi avevi aspettato ai piedi della discesa di cemento, quella che portava alla pinetina riarsa; le pigne esplodevano pinoli, i funghi esplodevano spore, tu esplodevi il tuo odio per me in sfere solide, in bolle di mancanza, nel tuo odore di rabbia che sentivo già dalla cima della rampa.

Quell’angolo del giardino dei tuoi era diventato per me un raro rifugio, contrapposto all’edera dei tuoi scatti d’umore.

Che vigliacca che eri stata, approfittarti del mio luogo di pace, del frinire delle cicale che si dileguava stanco nella fine dell’afa, del momento in cui le pellicole del giorno si staccavano dai pori per mischiarsi alla terra. Mi avevi guastato con il tuo alito guasto, guastato il respiro finale della terra che andava a dormire. Ora tutto sapeva di medicinali scaduti, di ansia da prestazione, di impotenza conclamata e delusa.

“Devi andare via”.

E come potevo fare? Ero incollato ai muschi ingialliti, prigioni di rami mi legavano i polsi, le calze si arrotolavano sui porcellini di terra, scoprendo la piaga dell’elastico sui miei polpacci glabri.

Ero piantato nelle zolle tra gli aghi di pino, scavato nella corteccia, tumulato in quel tronco un tempo accogliente, ora senz’ombra.

“Devi andare via”.

Senz’ombra di dubbio, senza condiscendenza verso piccoli tradimenti, grandi bugie, aliti smacchiati, baci rubati e nascosti nella pochette della giacca. Senza rispetto per chi non ha avuto rispetto, senza amore per chi ad amore ha preferito l’abitudine. E il tramonto che non veniva.

“Devi andare via”.

Tu attaccavi ferina. Finché non avessi schiodato le budella, evaporato il mio dopobarba mela e menta fuori dal villino, fuori dal giardino, fuori dalla vita mia, fuori dall’ultimo appello, fuori da una concessione. Una concessione privata, pubblica chissà. Per edificare, ricostruire, ristrutturare quel che restava, macerie frementi di disgusto. Fuori. E il tramonto che non arrivava mai.

“Devi andare via”.

Dileguati, squagliati, dissolviti, scompari, sparisci subito, in un momento, in un fiato, in un fiat. Fiat lux. E luce che sia, che non finisca, che distrugga l’ombra, che mi spiaccichi sotto questo pino, vicino al cedro, vicino al leccio, vicino alla quercia. Il sole trionfava nel cielo, un eterno mezzogiorno infiammava, incendiava la radura, piccoli fuochi, piccoli fumi. Bruciava con me, avvizzito dal tuo fiato d’onice, dal tuo fiato di drago. Piromane eri, piromane nella tua furia massiccia, nei tuoi slanci di accuse, di imperfezioni, di recriminazioni. Ah, quanto sarebbe stato romantico tutto questo, distillato di pura germanità, la tua weltanschauung messa alla prova dalle mie meschinità quotidiane, dal mio inanellarsi imperfetto di sbagli e peccati, errori da novizio, da festa della matricola, tra balli sfrenati e goliardiche berline. Il tuo essere sistematica nella mia distruzione sistemica, il tuo metodologico strapparmi brano a brano ogni pezzo di carne, ogni pezzo di pudore.

Pudore sì, sudore no.

Che sudavo, eccome se sudavo, ai piedi di quell’albero ferragostano senza chioma, dall’ombra inghiottita dalle tue decisioni irrevocabili. E mentre me le comunicavi, la tua mascella sparava in avanti in un prognatismo da orbace, la terra ringhiava, emanava i miasmi della siccità, il terreno si spaccava in uno sbuffo polveroso e foglie gialle, gusci di chiocciole, formiche rossastre vi scivolavano dentro.

Il sole puzzava di petrolio, il sole puzzava di catrame e piccoli falò si accendevano nelle sacche riarse, mentre tu ringhiavi e io sudavo.

Che strana contrapposizione, la terra secca e il mio corpo liquido, ero fradicio, ma sapevo di buono, di innocenza di bimbo, di marachella. Mi sentivo come Franco Cerri, quel chitarrista jazz che, per guadagnare due lire, prestava i suoi grandi occhi verdi alla pubblicità del Bio Presto: faceva l’uomo in ammollo che riemergeva candido e immacolato da una vasca trasparente di acqua, macchie, detersivo. E io ero così, marcivo nel mio sudore, nell’ammollo dei miei sensi di colpa, delle mie promesse non mantenute, dei rancori rinfacciati.

Tu eri rimasta di fronte a me, ormai avevi esaurito il catalogo, di fronte a me appoggiato al tronco di un pino, la mia schiena spezzata, la camicia ormai resa inesistente dalla traspirazione. I tuoi occhi lampeggiavano Duracell, avevi detto pane al pane, cenere alla cenere, litio al litio. E aspettavi.

Aspettavi che io mi comportassi da uomo, che mi alzassi e me ne andassi, che rispettassi i tuoi desiderata. Ma io ero l’uomo in ammollo, creatura di acqua di corpo, inerte infingardo. Nel mio essere d’acqua, ero riuscito soltanto ad abbassarmi la cerniera dei pantaloni e a tirarmi fuori il cazzo, quello sì un gesto da uomo.

Mi ero messo a scuoterlo veloce, sempre più veloce, notando che a ogni colpo di mano arretravi di un passo, senza però riuscire a distogliere lo sguardo dal mio glande ipnotico. Si gonfiava, diventava rosso, era pieno di sudore e di tristezza, di sudore e malinconia, di profumo del passato.

E più diventava rosso, più la terra tremava, più si frastagliava l’humus seccato, rilucevano le sue particelle minerali. Più mi sbattevo il cazzo, più la terra ululava, privata di ogni vena idrica sotterranea. E anche tu, tu, eri diventata la moglie di Lot, statua di sale, finalmente senza odore.

Quando ero esploso, tutto il mio sudore, tutta l’acqua rubata al terreno, alle radici di magnolie e ortensie, a zanzare e a grillotalpe, era sgorgata dal mio cazzo, un fiotto da geyser che aveva raggiunto la cima degli alberi. E più il fiotto saliva, più io mi svuotavo, scioglievo, sparivo. Eseguivo i tuoi ordini, andavo via, risucchiato dal mio sudore, risucchiato dal cazzo. L’uomo in ammollo volava su, trasformato in liquido vibrante e gioioso, profumato di mela e di menta. Ed esplodeva in acqua orizzontale, con un fuoco d’artificio, diventando pioggia e irrigazione.

Bagnando te e il tuo dolore, la casa dei tuoi, la pinetina, le zolle spaccate e riarse, i lombrichi e le pigne.

Ero piovuto ovunque, nel terreno e nella tua mente.

Ero andato via.

Ero dappertutto.

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