Ricordo di un grande intellettuale
Il mondo di Perniola
È morto Mario Perniola. È stato il filosofo italiano che più e meglio ha sentito lo spirito del nostro tempo. Scantonò i "contropensieri" del Sessantotto per cercare le ragioni di una crisi
Raccontava le gelide, perfette lezioni di Luigi Pareyson, «un libro stampato», e il suo salutarli in ordine anagrafico, in arrivo e in partenza: «Eco, Vattimo, io e Givone, quattro strette di mano e quattro buongiorno!» Era la Torino anni Sessanta, da cui gli eccellenti allievi sognavano di fuggire dopo esservi approdati dai suoi dintorni. E così la via di Eco sarà il furore comico-erudito, di Vattimo il coming out ermeneutico, di Givone il pigro disincanto narrativo… E Mario Perniola? Lui astigiano, come ricorda il titolo di una recente, anonima opera in francese – Naissance à Asti – che lo accomuna ai destini di Alfieri, di Ventura e di Conte Paolo, in fondo al cuore se l’era cantata come l’illustre conterraneo: «Via via, vieni via di qui, niente più ti lega a questi luoghi…», ed era scappato al sud. E il 1968 se lo godeva a Roma, immerso nell’aria chiusa dei cineclub e nel rigore delle biblioteche, a Roma dove felicemente proseguiva a deragliare il suo treno situazionista. Cioè détournement cultura e decomposizione; e così Vaneigem, Gallizio e Guy Debord, che nel dicembre del ‘66 gli aveva inviato una lunga missiva ringraziandolo del suo Arte e Rivoluzione appena pubblicato su Tempo Presente. Era qualche anno prima e stava per materializzarsi la filosofia dello spettacolo.
Perniola si ritrovò giovanissimo in quella temperie di contropensieri e la sua intuizione immediata fu di scansare i bla-bla-bla del movimento studentesco. Né Breton né Sartre, giocoforza, ma Georges Bataille; né il volteggiare di aquile sopra le galere o le firme sui manifesti ma una talpa che scavasse nelle viscere della terra e in superficie riesumasse il nascosto e il rimosso del non conformismo e della trasgressione.
Io non ho mai nutrito mezzo dubbio: Mario Perniola è stato il filosofo italiano che più e meglio ha sentito lo spirito di ogni suo tempo vissuto, che sempre ha riflettuto nel cuore delle sue opposizioni più inattuali. Per questo i Sessanta non saranno mai stati, per lui, il decennio delle immaginazioni esaltanti ma l’apice del mito del progresso e dunque il principio della crisi culturale, allorché il divismo soppiantava il magistero e lo star-system filosofico spalancava il tendone del suo circo.
Accademia, editoria, televisione e giornalismo: la strategia di Mario era stata pensata con acutezza, alla Baltasar Graciàn, tanto da impressionare per la capacità di aprire ogni porta con i suoi concetti-chiave e mai usando i passe-partout degli altri. Per cui la post-modernità la rileggerà dopo che i minimalisti e i pensatori deboli vi si saranno tuffati (e annegati) dentro. E proprio negli anni Ottanta comincerà a imporsi come filosofo di culto, sottratto alle sirene della bassa notorietà, rilanciando le nozioni forti dell’estetica occidentale (Vita e Forma, Sentire e Agire), nozioni che un tempo avevano segnato l’egemonia della classe media e che ancor oggi restano come negazione finale del populismo ignorante. Erano i suoi sfolgoranti dualismi col tertium datur, come il cane inferocito che tempo fa era quasi riuscito ad ammazzarlo. Erano i traumi e i miracoli di un grande pensatore, che pure aveva resistito all’assalto, immoto. Era qualche tempo fa, quando ancora potevi incontrare un’amica in una libreria piena di facce intelligenti e con infinito piacere ascoltare un bell’incipit: «Ho letto l’ultimo di Perniola!» E alla fine: «Oh! Salutamelo!»
«Sì, te lo saluto.» Ciao Mario! Ti ho voluto un gran bene.