Marco Ferrari
“Marquis de Wavrin, du Manoir à la Jungle”

L’esploratore con la pipa

Un film rievoca le avventure di Robert de Wavrin, aristocratico con il "vizio" del viaggio che, nei primi decenni del Novecento, girò il Sudamerica con la cinepresa in mano per fissare su pellicola popoli e realtà che di lì a poco sarebbe stati spazzati via dal "progresso"

A lungo dimenticato, oggi è considerato il padre del documentario etnografico dell’America Latina. Parliamo del marchese Robert de Wavrin (1888 – 1971), pioniere del cinema belga. È una importante storia della prima metà del Novecento quella del marchese Robert de Wavrin, l’avventura di un aristocratico di provincia, nato e cresciuto nelle Fiandre, che a un certo punto si ritrova a percorrere le regioni sconosciute del Sud America. A contatto con gli indiani, si scopre esploratore, etnografo e cineasta. Grace Winter e Luc Plantier lo hanno raccontato in un film-documentario presentato di recente alla Cinematek di Bruxelles, Marquis de Wavrin, du Manoir à la Jungle.

I due autori Winter e Plantier si sono immersi nella storia del Marchese dimenticato. Alla fine del 1920, il belga fu il primo uomo bianco a immergersi nella vita marginale degli Shuar, un popolo nel nord dell’Amazzonia. Una panoramica unica di una foresta pluviale ancora intatta. A partire dal 1913, il marchese Robert de Wavrin (1888 – 1971) passò molti anni a esplorare quelle che allora erano le aree meno conosciute del continente. Per 25 anni tornò regolarmente in Sud America a proprie spese sperando di registrare su pellicola con la macchina da presa. Così oggi, grazie a lui, abbiamo testimonianze autentiche di regioni, culture e tradizioni la cui primitiva innocenza sarebbe da lì a poco andata distrutta dall’avanzata inesorabile della civiltà dei bianchi. L’aristocratico vallone, come il grande documentarista Robert Flaherty, prima di lui, si lanciò in quelle terre e tra quei popoli liberi e indipendenti, benedetti da uno stato intatto di innocenza originale.

Il marchese de Wavrin diventa una sorta Rousseau, dotato di macchina da presa, che filma l’ultimo segno di una natura incontaminata, condannata a scomparire. Quando raccontò in che modo era riuscito ad entrare in contatto con delle tribù irriducibili che temevano l’uomo bianco, lui rispose semplicemente che gli indigeni avevano fiducia nella sua lealtà. Implicato in uno scandalo giudiziario, per evitare il carcere al nobile belga non resta altro che fare le valigie. Decide per il Sud America, un continente che lo affascina fin dai tempi in cui studiava dai gesuiti, presenti in gran parte del territorio già dall’epoca delle prime scoperte. Avrebbe potuto dirigersi in Congo, che allora era una colonia belga, ma prese la via del sud. Abituato a nobili dimore, come il château de Ronsele, nelle Fiandre Orientali, Robert de Wavrin si munì della sua inseparabile pipa e della macchina da presa, di un blocco note e di un fucile da caccia e percorse sentieri inediti anche per chi era già insediato in Sud America, in paesi come il Brasile, il Paraguay, l’Uruguay, la Bolivia e il Venezuela in cui vigevano le abitudini invasive che arrivavano dal vecchio continente.

Così dal 1913 al 1916, dal 1919 al 1922 e dal 1926 al 1930 viaggiò in tutto il Sud America documentando le leggende, le tradizioni, osservando le usanze, annotando molti degli idiomi sconosciuti ai bianchi, calpestati e annientati dall’avanzare irruento della civiltà. Si prese solo una pausa durante la prima guerra mondiale quando decise di offrirsi volontario, forse per saldare il debito che aveva con la giustizia belga. Entra in una scuola militare nell’ottobre del 1917, in pieno conflitto, e combatte sino alla vittoria degli alleati.

Nel 1919 è già su un piroscafo diretto a Santos. Questa volta si trascina fin laggiù una camera da 35 millimetri e parte con il consenso dell’ambiente scientifico belga e francese. Tutto ciò che filma per fortuna è giunto sino a noi: le sue collezioni hanno trovato posto nei musei etnografici di Parigi e Bruxelles, in particolare il Museo Royaux d’Art et d’Histoire di Bruxelles, l’Institut royal des sciences naturelles de Belgique, le Natural History Museum de Londres et le Musée de l’Homme à Paris. Questo dà un’idea dell’interesse dei suoi film, registrazione di prim’ordine di tribù primitive che in molti casi sono state decimate, come quelle del bacino dell’Orinoco in Amazzonia. I suoi studi sono considerati fondamentali anche per la flora e la fauna del continente. Scoprì anche un pesce che porta il suo nome, il Biotodoma Wavrini. In tutto realizza quattro lungometraggi e 7 cortometraggi e soprattutto riporta in Europa migliaia di scatti fotografici e oggetti prodotti dagli amerindi.

Il suo film più celebre si intitola Au Pays du Scalp, uscito nel 1931, reportage sulla vita degli Shuar, più conosciuti come Jivaros. Ha scritto poi numerosi testi dedicati alla sua esperienza, dai viaggi nel Chaco all’Amazzonia, dall’Argentina all’Orinoco sino alla Colombia e alle isole Galapagos. Prendeva appunti fumando la sua pipa sempre accesa.

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