Fenomenologia della jella (contemporanea)
Il tacchino e le corna
Il mondo ipertecnologizzato si presenta, agli occhi dell’uomo della strada, come un rebus indecifrabile: e la superstizione diventa l'unica arma possibile per superare il trauma
«Qualsiasi tecnologia sufficientemente avanzata
è indistinguibile dalla magia»
(Arthur C. Clarke)
Già il nome, di impervia pronuncia, fa correre un brivido lungo la schiena. Eptacaidecafobia. Evoca epoche remote, oscure, codici comunicativi avvolti di mistero, rituali esoterici. In realtà, è un retaggio greco e indica la paura del 17. Diffusissima nel civilizzatissimo occidente; ancor più se al numero si accompagna un giorno della settimana, il venerdì: allora, agli occhi di chi ci crede, apriti cielo! L’apocalisse incombe.
Al che un razionalista duro e puro reagirebbe con un’infastidita alzata di spalle. Per snocciolare una dotta spiegazione: “In numeri romani il 17 (XVII) non è altro che l’anagramma di VIXI, ho vissuto, dunque adesso sono trapassato. Da qui l’infausta e infondatissima credenza”. Fosse ancora vivo Pitagora, che alla potenza dei numeri fermamente credeva, tanto da averci imbastito una coerente e suggestiva dottrina filosofica, il razionalista potrebbe passare un brutto quarto d’ora.
Disputa antichissima. La luce rassicurante della razionalità, che tutto mette in chiaro (il postcartesiano aufklärung di settecentesca memoria), opposta alle tenebre della superstizione, condannata già lessicalmente (il latino superstitio, significa stare sopra, al di là della ragione, ma anche di un credo religioso opportunamente codificato) e tacciata di infamia in ogni dizionario che si rispetti. Eppure, cacciata in malo modo dalla porta, la superstizione, il pensiero magico, beffardamente rientra da ogni finestra che le si pari dinanzi. E siccome la ragione, per quanto si ingegni, non è una monade priva di aperture…
Lo insegna il celeberrimo tacchino di Bertrand Russel (una star – il tacchino, sia chiaro – dell’epistemologia): aveva il torto di aver sempre snobbato l’opera di David Hume, che segnala i limiti conoscitivi dell’induzione, caposaldo dell’indagine scientifica per raggiungere da una serie di fatti concreti principi generali. E, da induttivista senza se e senza ma, aveva elaborato una ferrea catena logica di causa-effetto che riassumeva il suo essere ed esistere. Considerava un assioma che all’evento A (il nascere del giorno), necessariamente e irrevocabilmente succedesse l’evento B (la somministrazione a portata di becco della pappa). Edificio teoretico che vide miseramente crollare un brutto giorno, quando all’evento A segui’ l’inopinata catastrofe – che Carlo Emilio Gadda ci perdoni – del tristo evento C (il suo sgozzamento e traduzione in succulenta pappa per altri palati).
La scienza, infatti, procede con i piedi di piombo. Si autoanalizza, mette in discussione i propri presupposti, indaga sui suoi limiti. Esecra i dogmi in nome di una scepsi feconda. Oggi, auspice Karl Popper, per gli esperimenti più che di verifica si preferisce parlare di falsificabilità; non si disdegnano i salti logici dell’abduzione; c’è chi, come Paul Feyerabend, propugna l’anarchismo metodologico; e la fisica quantistica ha conferito dignità euristica alla probabilità. “Se è certo non è fisica, se è fisica non è certo”, chiosava Albert Einstein (citazione pescata non nelle infide acque di internet, ma nel classico Le origini del pensiero scientifico di Giorgio de Santillana).
Al di là della pittoresca congerie di corna, ferri di cavallo, gobbe a ponente e levante, amuleti vari e amene formule apotropaiche, si voglia o meno la superstizione è un sistema di pensiero; pensiero ellittico, che salta passaggi fondamentali, instaura frettolose, arbitrarie associazioni tra un prima e un dopo, per correre spedito alla conclusione: post hoc ergo propter hoc è la massima che, in soldoni e nove volte su dieci, ne riassumerebbe l’essenza.
“Gli uomini non sarebbero mai superstiziosi se potessero governare ogni circostanza per mezzo di regole prestabilite”, asseriva Spinoza nel Tractatus theologico-politicus. Già, ma quelle regole sono un sogno. Quindi l’uomo resta attanagliato dalla paura, dal timore di trovarsi in balia di forze oscure, di un universo (se non, addirittura, di un multiverso) enigmatico che si vorrebbe controllare, individuando i nessi causali su cui intervenire. Paradossalmente, è lo stesso punto di partenza della scienza.
Da Newton in poi, in progressione crescente, la scienza ha mietuto e miete trionfi straordinari. Che spesso inebriano il suo artefice e vellicano una ὕβρις, una superbia ingiustificata. Eppure la superstizione è sempre viva, vegeta, non meno salda e diffusa che nei secoli passati, e anzi anch’essa in continua espansione.
Se l’Ottocento positivista è stato il secolo delle magnifiche sorti e progressive, amaramente sbeffeggiate da Giacomo Leopardi, il XX e ancor più il nuovo secolo hanno assistito a una irresistibile ascesa della scienza. Ma anche all’instaurarsi, parallelamente, di un’ideologia scientista, che tutto pretende sussumere sotto l’etichetta speciosa di scienza: dall’economia fino ai cibi che arrivano in tavola. Persino lo sport: ad esempio il calcio, da gioco che dava libero corso alla casualità, si è trasformato nell’applicazione di un teorema, con i cosiddetti mister nelle vesti di novelli von Clausewitz, ed è per questo diventato di una noia abissale. In mano, o in testa, a dilettanti o fanatici, la stessa scienza si trasforma in superstizione.
Il mondo ipertecnologizzato si presenta, agli occhi dell’uomo della strada o, se si vuole, della casalinga di Voghera, anonimi eroi del quotidiano, come un rebus indecifrabile. Simile a una tribù di scimmie, l’umanità pigia tasti, clicca su icone e ottiene dei risultati; ma perché si producano quegli effetti è accessibile a una ristretta élite.
La scienza rende verosimili chimere come l’immortalità. Un viaggio su Marte non è più una trovata da fumetto o la trama di un racconto di fantascienza. L’intelligenza dell’homo sapiens è messa alle corde dai prodigi inimmaginabili dell’intelligenza artificiale, che invade tutti i campi. Si impone e dilaga il linguaggio iniziatico degli algoritmi.
“Un mondo essenzialmente meccanico sarebbe essenzialmente un mondo privo di senso”. (Friederich Nietzsche, La gaia scienza). Infatti l’uomo comune (cioè la stragrande maggioranza della popolazione mondiale) stenta a trovare un senso, è smarrito, sgomento. Tutto gli appare distante, incomprensibile. La risposta che dà all’indecifrabilità che lo circonda è, non può che essere, emotiva, con il sigillo della superstizione. Nell’arengo politico si invocano gli Uomini della provvidenza: l’Italia ne sa qualcosa. Masse imbufalite eleggono personaggi inaffidabili e arroganti, che rilanciano a voce alta e piglio sfrontato le formule magiche scaturite dal loro marasma concettuale.
Immerso nell’opulenza tecnologica, l’uomo comune imita lo sventurato tacchino di Russel. Si illude di cogliere con la sua quadrata piccola ragione– è ancora quel mattacchione di Nietzshe a parlare- l’evento A che precede e determina l’evento B del suo smarrimento, confusione, frustrazione. Cerca un nemico, un bersaglio da colpire. Insegue inferocito i gatti neri della storia. Li trova e colpisce nei più deboli, emarginati, diseredati, l’orrore ineffabile del Kurtz conradiano. I gatti neri, la causa di tutte le sciagure dell’individuo e di un paese, dalla disoccupazione allarmante alla disfunzionalità amministrativa a un ordine sociale stomachevolmente iniquo, sono allora i migranti che arrivano dalle regioni più devastate – dall’avidità degli occidentali – del mondo.
È davvero netto e invalicabile il discrimine tra le due “culture”? Un aneddoto. Nessuno potrà negare che Wolfgang Pauli sia stato uno scienziato grandissimo, uno dei maggiori del secolo passato, premio Nobel 1945 per la fisica. Ebbene, Pauli evitava con cura di entrare in laboratorio per seguire gli esperimenti, convinto, gli era accaduto più di una volta, che la sua presenza li avrebbe mandati in malora: tentò di capirci qualcosa in tandem con Carl Gustav Jung. È passato alla storia come effetto Pauli. Così l’umanità resta sospesa tra l’impresa titanica di un sapere sconfinato, che la deificherebbe, e le scorciatoie rassicuranti della superstizione, che la restituiscono a una condizione tribale. Non smette di aggiungere mattoni al superbo edificio della conoscenza, e prudentemente tocca ferro o gingilli di analoga potenza.
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Nelle immagini, alcuni Pulcinella di Giandomenico Tiepolo