La voce del poeta: Francesco Dalessandro
L’istante della visione
Per l’autore abruzzese, la poesia è «presenza che all’improvviso esplode» mostrandosi. Ed è racconto, perché raccontare ciò che vedono gli occhi della mente è significare, restituire un senso. E così, con coraggio e discrezione va riaffermando la sua fiducia nella poesia…
Francesco Dalessandro, nato in provincia dell’Aquila, vive e opera a Roma. Ha pubblicato le raccolte I giorni dei santi di ghiaccio (1983), L’osservatorio (1988), Lezioni di respiro (2003), La salvezza (2006) e Aprile degli anni (2010). Una versione rimaneggiata di L’osservatorio è uscita presso Moretti & Vitali nel 2011. Il dettato di Dalessandro, «poeta che con discrezione, ma anche con coraggio, ha riaffermato una fiducia attiva nella poesia», secondo una definizione di Bertolucci, si configura come un ammirevole racconto per immagini cadenzato sul ritmo del respiro o sul ciclo cardiaco di sistole e diastole.
Può parlarci della sua ultima raccolta?
Si tratta della riedizione del poemetto L’osservatorio, già uscito nel 1998. Nonostante i dodici anni impiegati per scriverlo, sentivo – come scrivo nella nota finale – che c’erano ancora parti non realizzate, opacità o durezze sintattiche, asperità di sentire e di pensiero che bisognava emendare.
«Diviso in quattro libri o canti, L’osservatorio si snoda dal mattino alla notte, in una giornata che accoglie in sé molte stagioni ed esperienze. Vi si percorre instancabilmente Roma, qui vista e raccontata con pacato e spietato amore. E se l’occhio – che indugia nelle strade e nelle piazze, nelle stanze della casa e nel chiuso della mente – non trascura aspetto e mutamento, è poi il continuo trepido trasalire dell’emozione e della percezione ad ampliare all’infinito il raggio di questo minuzioso osservare». Sono parole di Elio Pecora tratte dalla motivazione del “Premio Dario Bellezza”, anno 2000, al quale il libro, con la prima edizione, fu finalista.
E Gianfranco Palmery, nel saggio Il destino di ognuno che accompagna la riedizione del 2011 scrive: «Nel poemetto […] non si narra nulla – si gira intorno. Tutto trascorre e ritorna. Non ha il tempo lineare della narrazione, della storia, bensì il tempo circolare delle stagioni, della natura».
Per parte mia, posso aggiungere che le sequenze del poema rappresentano il tentativo di accompagnare emozioni e mutamenti, di registrare in presa diretta realtà e visioni, insomma di afferrare e di affermare il senso delle cose che (ci) accadono e che, nonostante sia davanti a noi, sfugge spesso fino a rendersi invisibile; o, se a tratti riusciamo a vederlo, è solo con gli occhi della mente.
I suoi testi, come ha osservato Giancarlo Pontiggia, rinviano a un’idea della «tradizione senza annientarla o dissolverla in ambigue – e facili – ironie corrosive».
La mia prima preoccupazione è quella della chiarezza, perché «soltanto la chiarezza può rappresentare ciò che un uomo sente» (sono parole di Stendhal). Intendo chiarezza sintattica, non solo di senso, che vuol dire disporre le parole in un loro “ordine naturale”; detto altrimenti, significa non piegare l’ordine sintattico della frase a esigenze metriche (milioni di eccezioni, se – dice san Girolamo – «anche l’ordine delle parole è un mistero»), perché le convenzioni metriche, gli artifici, minacciano la naturalezza (del discorso e della lingua) e tendono continuamente a sopraffarla. Questo, per me, vuol dire appoggiarsi alla tradizione e restarle fedele, senza annientarla o disperderla, anzi rinnovandola come permette la propria sensibilità.
Quali sono le tematiche che contraddistinguono la sua poetica?
Vorrei rispondere con le parole di Conrad: «L’instancabile, onesta attenzione a ogni momento della vita, l’attenzione nel verificare come essa si riflette nella nostra coscienza, è probabilmente il dovere che ci è stato assegnato. Un compito in cui forse il destino ha impegnato la nostra coscienza, conferendole anche voce per testimoniare la sofferenza e la serenità».
Ma sono invece le parole che Grace Kelly rivolge a James Stewart in una scena del film di Hitchcock La finestra sul cortile: «Raccontami quello che hai visto e che cosa potrebbe significare», poste in esergo a L’osservatorio, a spiegare perfettamente le mie intenzioni; esse, in estrema sintesi, sono la mia dichiarazione di poetica. Perché raccontare è significare, è dare un senso. Il poeta catalano Pere Gimferrer scrive che la poesia «non è che un punto di vista da cui guardare il mondo – per un solo istante –; non come idea vissuta giorno dopo giorno, ma come presenza che all’improvviso esplode davanti ai nostri occhi». La poesia, per me, è esattamente quell’istante di nitida visione.
Quali sono i suoi autori di riferimento?
Limitandomi solo ai poeti e tralasciando classici antichi e moderni (da Lucrezio e Orazio a Cavalcanti e Dante, da Keats, che ho tradotto, a Leopardi, da Baudelaire a Eliot e Montale), voglio fare un solo nome: Attilio Bertolucci. Alla sua scoperta, alla sua lettura, alla sua amicizia devo quel che è stata, e forse è, la mia poesia. Ma se posso aggiungere poeti più prossimi a noi, cito – della generazione appena precedente – Roberto Coppini (del quale è appena uscita l’opera completa: Una remota notizia – Poesie edite e inedite, a cura di Fausta Garavini e Francesco Rognoni, Sedizioni – Diego Dejaco Editore, Milano 2017) e, della mia generazione, Gianfranco Palmery: due ottimi poeti poco conosciuti e ormai scomparsi che meriterebbero ben altra sorte.
Cosa pensa della diffusione della poesia in rete?
Una volta c’erano le riviste cartacee (qualcuna ancora resiste, ostinatamente), ora ci sono i blog. Anch’io ne curo uno (poesiesenzapari.blogspot.it), ma solo con l’intento di offrire qualche buona poesia, a mio gusto e senz’altra ambizione. Devo dire, però, che il mezzo – i blog, ovvero internet –, che sembrava una buona opportunità per la conoscenza della poesia, si è rivelato deludente, perché spesso vi si leggono troppi brutti versi. Il singolare e l’assoluto hanno lasciato il posto al relativo e al plurale e la “rete”, credendo di non dover discriminare, non distingue, non sceglie, rinuncia a parametri di valore e accetta tutto; ma questo – dispiace dirlo – non rende un buon servizio alla poesia.
Cosa sta preparando attualmente?
Scrivere è un piacere e un tormento (le due cose vanno sempre insieme, si sa) e sempre ho pensato che i veri momenti piacevoli sono «nel tempo del comporre», come lo chiama Leopardi. Dopo ogni poesia mi sento vuoto e temo ch’essa possa essere l’ultima. Già in passato, il miracolo dell’assoluta solitudine, della completa disponibilità a ricevere questa sorta d’illuminazione necessaria alla scrittura, era sempre meno frequente. Tuttavia, come diceva Montale, il poeta è un uomo necessitato, perciò la poesia continua a fare breccia nelle munite difese della vita quotidiana e il suo fuoco ad appiccare i brevi incendi necessari alla scrittura. Perciò a primavera uscirà un nuovo libro, il cui titolo è Figure d’ombra, mentre un altro si sta lentamente componendo.
Può commentare la poesia inedita presentata?
Fa parte del libro che uscirà in primavera e che richiede due parole di spiegazione. Esso nasce dall’assunto di Gianfranco Palmery che «la vera idea atomica che disintegra l’io non è “io è un altro”, bensì il suo inverso: “un altro è io”». Perciò, nel libro, non c’è un io che diventa altro da sé, che parla al lettore assumendo una diversa identità; ci sono, invece, una pluralità di “io”, esseri un tempo vivi e reali, e ora figure d’ombra, appunto, che uscite dall’ombra si affidano al poeta – che si è prestato a fare da medium, umbra egli stesso del loro pensiero – perché ne evochi la vicenda. Facendolo, non significano solo sé stesse, ma anche colui che dà loro voce e le comprende (nel senso doppio del verbo): questi e quelle sono distinti e al contempo inseparabili, in una dinamica di reciproca rivelazione che ne evidenzia le rispettive realtà.
Ogni poesia, o sequenza di poesie, si riferisce a un personaggio e coglie un momento cruciale della sua esistenza. Ne La rinuncia, in particolare, il protagonista è Camillo Fonte, un bravo poeta nato e morto, di sua mano, a L’Aquila. Riconosciuto solo da pochissimi amici e quasi del tutto inedito, lavorò per lunghi anni a un poemetto, rimasto incompiuto e inopinatamente ancora inedito, intitolato L’isola. Aveva previsto due parti, ma rinunciò a scrivere prima d’iniziare la seconda e immediatamente prima del suicidio. La mia poesia prova a “raccontare” il momento in cui egli capisce di non voler più scrivere (e forse l’attimo in cui decide di mettere fine alla sua vita), nemmeno provando a ipotizzare le ragioni della scelta, se non nella disillusione e nella presa d’atto che la poesia non salva la vita, e che non si può vivere a lungo sull’orlo di un abisso.
***
La rinuncia
(Camillo Fonte, L’Aquila 1951-1987)
non è vivere vivere sospesi
sull’orlo dell’addio, dell’abbandono
I
Un altro giorno inerte, speso male.
La città ferve ancora, ma lontana.
Salgono voci dal cortile: gente
che rincasa. Hanno echi
insinceri, le fredde cortesie
fra vicini. Dal parco,
i giochi dei bambini.
Altre voci si chiamano. Qualcuna
la riconosci…
È la memoria che s’avvia, fa nodo.
II
Una fede caparbia ti preme
a incidere il foglio, avventuroso
mare dove lo scafo ha il poco scampo
che gli assegna la sorte.
E linea dopo linea onda per onda
tu ne solchi il pallore, ma sai
che neanche il cuore ormai se ne consola:
non serve a sopravvivere, non basta.
Francesco Dalessandro