Nicola Fano
Al confine con le Langhe

Il bue di Carrù

Un giorno a Carrù, Cuneo, dove ha vita la secolare "fiera del bue grasso": una manifestazione contadina che prova a raccontare la profondità della storia

Alla fiera del Bue Grasso di Carrù ha vinto un bue da lavoro, non una bestia destinata al macello: è una notizia. Forse un segno dei tempi. Carrù, Cuneo, porta delle Langhe, da sempre ospita una festa che ai più può sembrare strana: poco prima dell’alba, gli allevatori piemontesi portano in passerella (in un tendone che chiamano Bue’s Stadium, e non scherzano) bestie sontuose di pura razza piemontese per metterle a confronto: una giuria di esperti con aria compunta sceglie il migliore che, subito dopo, viene battuto all’asta. Il destino del bue vincitore, sempre ben venduto, è scritto: fino a quest’anno, di norma, passava al macello attiguo rendendo (possibilmente) bene a chi lo aveva appena comprato. A prima mattina – le sette, le otto – il pubblico competente, soddisfatto, si trasferisce sotto un altro tendone dove da ore in calderoni assurdi cuociono tranci di manzo bollito serviti in fretta agli uomini (e alle donne) già stanchi. Alle dieci mattina sono già tutti ubriachi e i turisti – tantissimi – possono prendere il campo, affollando un mercato interminabile che riempie le strade del paese esponendo cibi, abiti, oggetti e tutto quanto possa essere venduto in una fiera, dai bulbi di cipolla agli ombrelli che si aprono a rovescio. A dirla così, sembra una cosa assurda; mentre il mondo è sottoposto alle follie di un tizio con l’aria da cretino e il ciuffò alla teddy boy e annega in un mare di fake news, qui si celebra l’ultima fiera di animali! È invece io l’ho vista dal vivo e posso testimoniare che è proprio così: una squisita prolunga di Ottocento nel cuore del futuro. Spesso ho alzato gli occhi al cielo sperando di vedere lo sputnik e potermi dire: «Lo vedi? È tutto un sogno!». E invece…

E invece mi è presto tornata in mente una pagina che quando la lessi risi come un bambino: una pagina de Le stagioni di Giacomo di Mario Rigoni Stern (era così bravo Rigoni Stern che sapeva anche far ridere). Ebbene, il fatto è che, lì ad Asiago, i fascisti (racconta Rigoni Stern) vietarono l’allevamento dei tori burlini autoctoni per favorire non so quale lobby di bovari. E allora i poveri valligiani fecero una manifestazione di piazza inneggiando «Viva Mussolini e i tori burlini!». Dicendo: se noi si parla bene di Mussolini chi vuoi che ci protesti? E infatti vinsero loro, all’apparenza, suggerisce Rigoni Stern. Anche a Carrù ogni anno vincono i portatori sani di una tradizione secolare assurda quanto volete ma radicata a tal punto nel dna delle persone che chiunque, in zona, ricorda le avventure, le scorpacciate, le follie consumate nella notte che introduce al secondo venerdì di dicembre: un senso di adesione a un immaginario condiviso che vorrei poter vantare io! Non so voi.

A Carrù una targa ricorda che qui nacque Luigi Einaudi, «il primo presidente della Repubblica italiana». Ma non era di Dogliani, mi sono subito chiesto? I telefonini servono anche a questo: e ho scoperto che no, Luigi Einaudi è nato a Carrù dove il padre riscuoteva le tasse. Quando questi morì, Luigi si trasferì a Dogliani, paese natale della mamma. Una volta l’ascensore sociale in Italia funzionava, sicché si poteva nascere all’ombra della fiera del bue grasso (all’epoca già c’era) e diventare uno dei massimi economisti mondiali del Novecento. Adesso, invece, Carrù consuma l’attesa dell’evento per trecentosessantaquattro giorni all’anno; e solo per l’apoteosi della sua funzione storica s’infiamma tra via Garibaldi e via Mazzini alla cui confluenza con via Luigi Einaudi sorge un immancabile “Museo del Bue” (con le maiuscole, ovviamente). Mentre più in là, sul corso, lontano dal mercato, una principesca macelleria/salumeria (Chiapella, si chiama, con una p) vende insaccati che neanche Falorni in Chianti. Per la fiera, i carruesi (si chiameranno così?) ostentano storia: i vecchi contadini e allevatori, dopo aver assistito alla mostra bovina e all’asta, sono andati a casa a prendere il tabarro di antica ordinanza da indossare nel giorno della festa. Oggi è il giorno della festa e questi magnifici uomini sapienti indossano il loro mantello a ruota come indossassero la loro storia. Con grande semplicità, insomma. Mentre le loro donne soppesano la vita che noi altri foresti portiamo in Langa al fine di condividerla da domani nelle chiacchiere: non è per ritrovare in loro un frammento di buona letteratura del Novecento che ho l’impressione che saranno loro – le donne – a raccontare le novità incontrate nell’occasione.

Mentre tutti gli altri – “i gggiovani” – fotocopiati ai foresti hanno continuato a bere e mangiare dolcetto e bollito sotto la tenda o nei (pochi) ristoranti del paese. Con l’unico obiettivo di alzare il gomito e la voce a cicli alterni, come se l’uno e altra – gomito e voce – fossero solo i vomeri simmetrici di un aratro: un rito vuoto per perdersi. Questa terra è così ricca per definizione che disoccupazione è una parola senza senso. Ma, al contrario di questo vuoto di riconoscibilità, i riti dei loro padri e nonni sono trucchi per darsi profondità in un patronimico – Bianchi Filippo fu Mario – che intende una storia che va all’indietro di qua e di là senza fine e senza vergogna.

Se è questo che volete sapere, io non mi sono ubriacato. Anzi. E comunque a Carrù ci sono finito per caso, per il consiglio saggio di un albergatore intelligente. Solo dopo, a cose fatte, ho scoperto che venerdì scorso il bue grasso vincitore era stato non un animale da carne ma uno da lavoro. Mi è parsa una pruderie vegana, una vergogna inutile, un pessimo segno dei tempi. Che mal s’accompagna ai nasi rossi, ai visi contorti dal lavoro nei campi, all’immaginario conciso dei veri vecchi del luogo (maschi e femmine): i quali sembrano ormai costretti a doversi vergognare di sé. I bue da lavoro è politically correct, non è fatto di rosa e piccione, di guancia e ginocchio (son pezzi della bestia macellata, tranquilli) ma è quello schiavo d’altri tempi che prende su di sé, catarticamente, le bastonate e le fatiche del contadino che non c’è più: un Arlecchino estinto (Arlecchino prendeva le bastonate in vece del suo pubblico). Salvo che, nel mondo, il bue ormai non è più un lavoratore: il suo posto è stato preso da macchine, non possiamo nemmeno far finta che non sia così. E a Carrù, diciamolo, il premio va da secoli al bue bello, al più pesante, al più elegante: dicono che li pettinano, prima, per mesi, che tagliano loro i peli ad arte per nascondere le (eventuali) imperfezioni muscolari. Quello che ha vinto venerdì scorso pesava quasi mille e quattrocento chili, senza un filo di grasso e con il vello ordinato come un cane di Walt Disney. Neanche il bollito, se devo dire la verità, era gran ché: segno che la Storia, pericolosamente, sembra passare invano.

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