La voce del poeta: Vito M. Bonito
Dire da altrove
Nulla concedono i versi dell’autore di “Soffiati via”: né allo stile, né alla forma. Del resto per lui, il tema ricorrente dell’infanzia è collegato, in maniera inestricabile, alla morte e alla deriva, all’abiezione e alla menzogna. “Sprofondi” che per essere detti devono attraversare una lingua dimentica di sé
Vito M. Bonito ha pubblicato diverse raccolte, fra cui Campo degli orfani (2000), La vita inferiore (2004) e Fioritura del sangue (2010). Soffiati via (120 pagine, 15 euro) è l’ultima sua silloge, pubblicata dalle edizioni Il Ponte del Sale nel 2015. La poesia di Bonito nulla concede sul versante prettamente stilistico, approdando a una sorta di esibita sprezzatura, con cadenze allucinate e visionarie che creano effetti stranianti. Il tema ricorrente dell’infanzia è collegato, in maniera inestricabile, ai motivi della morte e della deriva, dell’abiezione e della menzogna.
Può parlarci della sua ultima raccolta?
Soffiati via è un libro rimasto latente e sotterraneo per molti anni. Non trovava la sua lingua; non riusciva a dirsi nella forma a cui poi è approdato. Una sorta di lingua dimentica di sé – e del luogo da cui è pronunciata. La moltiplicazione delle voci e delle figure che lo popolano si è imposta su ogni tentativo di dare una centralità percettiva e singolare alla struttura del libro. È un libro esploso e spaesato che non sta letteralmente né in cielo né in terra, come né in cielo né in terra sono i corpi e le anime che lo attraversano. Il problema era, per me, affrontare la paura di dire cose che solo i bambini sono in grado di esprimere, o i serial killer, o il sottosuolo più orrendo del nostro essere umani. L’unica maniera di percepire o restituire questi sprofondi è stato dimenticare la mia lingua, o quella che credevo fosse la mia lingua, e il suo potere selettivo e censorio. Così ho adibito e addobbato un paradiso senza centro e senza il paradisiaco: così come si apre nello sguardo e nelle parole di chi uccide e di chi è ucciso.
Nei suoi testi è presente un’evidente sprezzatura formale.
Le infrazioni formali, o sintattiche, che già si erano manifestate in Fioritura del sangue, credo siano vere e proprie interferenze, distorsioni, dovute alla lontananza da cui giunge la parola e il suo suono. Una lontananza senza direzione da cui mesmericamente, ipnoticamente, giungono il farsi e disfarsi del linguaggio e i microcollassi logici del discorso. Sarebbe come fotografare gli spiriti e cercare di dare forma a ombre senza margini.
Il tema dell’infanzia, così presente nelle sue raccolte, è spesso contaminato con l’idea del dolore e della morte.
Che l’infanzia sia legata al dolore e alla morte per me non fa una piega. Uscire dall’infanzia o dalla vita è la medesima cosa. L’infanzia, poi, possiede una crudeltà e una verità che uccidono. Da quando sono diventato padre (e già dire padre mi uccide) ho scoperto la feroce e dolcissima ironia che i bambini (anche nella semplice lallazione) portano in sé. Se non avessi, oggi più che mai, il senso (o il non-senso) della mia fine così presente e prossimo sarei davvero in una prospettiva altra rispetto al dolore e alla morte. L’unica consolazione è non sapere, e nemmeno credere di non sapere. E sperare che la mia fine non pesi sul cuore, tra le mani e sul sorriso di mia figlia e delle persone a me care. Vorrei avessero al momento opportuno quella capacità di dimenticare e di trasformarsi dei bambini.
La sua è una poesia fortemente antilirica, con accenti espressionistici che spesso rimandano ad altri autori ed esperienze. Può farci qualche nome al riguardo?
La ringrazio per l’antilirico, davvero. Mi sta bene. Mi starebbe bene a conti fatti anche un’altra definizione. Mi sento uno già consegnato all’aldilà della parola quanto della vita. La cosa triste non è essere lirico o antilirico, la cosa triste è innanzitutto definirsi qualcosa, definirsi tout court. Leggo continuamente di “poeti” che fanno poesia di ricerca, sperimentale, performativa, terminale, non assertiva, vocale, non vocale, improvvisata, cantata – e via così. Questo desiderio di teoresi intorno a sé stessi e ai propri amichetti onestamente apre scenari di solitudini umane. Talvolta squadriste. Sono categorie già vecchie e agonizzanti. Spesso anche i testi. Cose obsolete montate con nuovi foglietti di istruzioni. Quanto ai nomi di una possibile lista di autori a me cari restano l’Antico Testamento, Dante e Beckett, ma dovrei convocare inoltre Teresa di Lisieux, Sofocle, Celan, Caproni, Dostoevskji, Pascoli, Thomas Bernhard. Poi ogni mio libro ha la sua storia. Da un po’ ho riscoperto Fortini ad esempio. Mi piace la sua poesia epigrammatica, la sua ferocia, il cieco livore moralistico con cui non si dà tregua. Questo vale anche per Brecht. Li ammiro – e li leggo al contrario. Come innestandoli in una scrittura disturbata – o ancora meglio pensando che siano librettisti da melodramma. E in effetti la librettistica è stata una passione giovanile a cui sono tornato. Mi dà la possibilità di una strumentazione parodizzante, di un controcanto in falsetto.
Cosa pensa della diffusione della poesia in rete?
Sono un riluttante frequentatore della rete. Anche se alcune cose in effetti catturano la mia attenzione. Ci sono riviste online molto ben curate, serie e leggibili quasi come quelle cartacee. Hanno il vantaggio di essere un archivio rapido da consultare e utilizzare. Sono il supporto contemporaneo con cui non ci si può non confrontare: un non-luogo in qualche modo pieno di cose. Certo per me, e suppongo per molti della mia generazione, resta un luogo evanescente, immateriale rispetto al cartaceo che ha una leggibilità tattile e mentale profondamente superiore. Una lentezza del pensiero con cui mi trovo più a mio agio. Altro sono i social, il cui unico aspetto positivo è la circolazione di informazioni (libri, eventi, articoli). Per il resto sono un luogo senza alcun senso, dove si coagulano forme di dimessa egolatria o di comicità involontaria. Leggere una poesia su facebook non dà alcun valore a quella poesia. Il rumore di fondo soverchia ogni tratto distintivo del testo. Tutto appare in qualche modo miserello.
Cosa sta preparando attualmente?
Nel 2018 uscirà per l’editore Oèdipus (nella collana Croma K di Ivan Schiavone) Fabula rasa. Un libro di “favole”, e poesie per mia figlia (già uscite nel marzo 2017 in una plaquette non venale intitolata La bambina bianca). In queste “favole” ci sono dediche a persone decisive nella mia vita. Ma tutto è detto da un altrove, come se non ci fossi più. Non è un libro privato, anzi. È come mostrare a chi arriva ciò che le sta intorno della realtà, e della vita di suo padre. È un libro di rime, di cantilene, che vorrebbero avere la leggerezza dell’estinzione. Piccoli melodrammi con arie e recitativi. Mi tiene per mano mia figlia – con buona dose di ironia nei miei confronti.
Può commentare la poesia inedita presentata?
Il testo inedito qui presentato è una sequenza di 4 poesie. Non riesco a scrivere una poesia. Ho bisogno di una sequenza perché si dia una poesia. È un gioco tra due voci. Del padre e della figlia. Sono voci a dispetto l’una dell’altra. Quella della bambina è dispettosa davvero – e nonostante tutto consolatoria. È lei che tiene il filo e capovolge tutte le mitologie e le mitografie del padre. Le riporta in basso, nel basso quotidiano di un padre non più giovane. È l’inizio di una resa dei conti con ciò che si è, e non si può fare a meno di essere. Una burla del proprio vaniloquio arrivato quasi alla fine. Fabula rasa appunto.
***
Crescita (I)
a casa i vivi non ritornano più
nei letti dei bambini
sussurra la cenere – su!
su! è ora di andare
noi siamo la cenere
un muover di ciglia
e il vuoto
dentro
che ci pispiglia
siamo il pappo e il dindi
il quinci e il quindi
specie segnata
caligine affannata
***
brucia un secolo
e non per l’orrore
la strage
brucia perché
adagio
si muore
cotti a vapore
dentro un bidè
nessun confessore
ablatore
o confortatore
così sia
così è
nessun fiore
che dica
non-ti-scordar
di-me
***
ci guarda iddio
a testa in giù
è perplesso
vergine infinita
gesù!
***
papà io ci credo
al diluvio alle piume
anche all’uovo
senza l’albume
a tutto ci credo
di quello che dici
ma la giostrina
dei tuoi pupazzetti
si ruota
perde i pezzi
si ruota
è deserta
come il bianco
della farina
è bella così
anche di più
come un respiro
vuoto
al suo ultimo giro
Vito M. Bonito