Danilo Maestosi
Il cinema che fa discutere

Consumare è arte?

Il film svedese “The Square” riflette sul rapporto tra arte e consumo, tra arte e comunicazione. La metafora è amara: siamo tutti merce a cui è destinata altra merce

Dopo il premio a Cannes, l’inserimento nella rosa delle candidature all’Oscar. Per il film svedese The Square un traguardo che trascinerebbe Oltreoceano, palcoscenico cardine del contemporaneo, il dibattito sull’arte di oggi che ha sollevato e gli restituirebbe, forse, echi ben più incisivi. Perché preso di mira e messo alla berlina da un copione di corrosiva ironia, il cerchio magico degli addetti ai lavori ha reagito alla pellicola con sorprendente distacco. Non ha ritenuto opportuno raccogliere i segnali d’allarme e di crisi che il film ha lanciato sul presente e sul futuro dell’arte che va per la maggiore.

Eppure di spunti di riflessione e autocritica ce n’erano davvero tanti. A cominciare da quella sconcertante scena d’inizio. Il museo d’arte moderna di Stoccolma che mette in cantiere, per aprir la stagione, una nuova istallazione: tracciare davanti all’ingresso un grande quadrato e invitare chi vuole ad entrarci e fare o dire quel che vuole, garantendogli la piena libertà. Gli operai che preparano la scena sollevano una grande statua equestre di bronzo che avrebbe ingombrato la vista: e il monumento male agganciato all’argano crolla giù, si schianta e va in pezzi. Un incidente che non sembra scatenare ripercussioni. Ma comunque emblematico.

Il sistema autoreferenziale dell’arte che, accecato dalla scelta di campo di un eterno presente di irraggiungibili verità, non esita a rimuovere come un ostacolo privo di senso e valore di scambio la Storia, cui come ogni produttore di attività di forte impatto sociale dovrebbe dar conto e con cui dovrebbe convivere. Vada pure in malora: la società orizzontale della Rete, sa e può farne a meno. Uno spettacolo agghiacciante quella scultura rimossa e maltrattata. E invece neanche un brivido, un sussulto di dubbio di fronte al disastro: Dio mio, che stiamo facendo? Dio mio, che stanno facendo? Guardatevi intorno, succede così in tutto il mondo, figurarsi in Italia, provincia marginale dell’Impero del denaro e del gusto.

A dare scandalo è invece un’altra vicenda inserita in sceneggiatura. Per reclamizzare l’istallazione, il museo si affida a due creativi pubblicitari, che mandano in onda grazie all’assenza di controlli dello staff museale una stravagante campagna. È il filmato di una zingarella bionda che varca il quadrato magico a testimoniare il proprio disagio di innocente emarginata, avanza piena di speranza e improvvisamente esplode. L’effetto sui social è virale. Il messaggio registra migliaia di commenti. In gran parte consensi e condivisioni crudeli: l’anonimato della Rete produce mostri. Ma anche una massiccia dose di reazioni indignate. Lo scandalo costa la rimozione del curatore del museo. Eppure a pensarci su, senza remore di correttezza politica, il messaggio della campagna pubblicitaria è più originale e più forte, più vicino alla realtà, di quello che l’opera d’arte, quel simbolico quadrato di totale democrazia aperto a tutti, aveva programmato. Un responso smagato alla Sartre: il diavolo è sempre in agguato nei paradisi artificiali del buon Dio.

Niente da meravigliarsi comunque che nel derby con la pubblicità l’arte di oggi, o almeno quella che oggi circola sui palcoscenici che contano, esca sconfitta. Colpa di chi, a forza di incoraggiare e promuovere sconfinamenti e contaminazioni, rendendo unico arbitro del gioco il mercato, ha praticamente cancellato ogni distinzione fra arte e creatività. Se il valore di un’opera d’arte è il riassunto solo dal tragitto mentale da chi l’ha prodotta o dal peso delle icone a cui ruba significato e prestigio, dalle regole della convenienza che la ispirano, se il vero e il verosimile collimano, inevitabile che le invenzioni senza pretese e infingimenti, l’estetica patinata, le provocazioni calcolate a tavolino della pubblicità abbiano il sopravvento.

Dovrebbe far discutere anche la terza scena madre del film: quell’attore che simulando movenze e istinti da scimmia fa irruzione in una cena di ricchi sottoscrittori scatenando prima il loro divertito imbarazzo poi, quando i suoi modi si fanno più brutali, una reazione che si trasforma in un tentativo di linciaggio. Anche qui l’arte e chi la gestisce ha perso ogni senso del limite tra finzione ed azione, tra vero e verosimile, tra profondità e superficie, diventando un laboratorio di rassegnazione perché il presupposto su cui si fonda è la società dello spettacolo, l’ideologia vincente del potere finanziario, la rimozione dell’uomo come valore fondante attraverso la rimozione della morte.

L’arte che dovrebbe suggerirci nuove vie di riscatto, ci precipita nella nostra insignificanza di spettatori-consumatori, merce a cui è destinata altra merce, anche quando sembra invitarci a partecipare. È il ricatto del contemporaneo. Se non accetti, non ti adatti sei fuori dal gioco. Un algoritmo, oltre che una vita a perdere.

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