Al Brancaccino di Roma
La diva del Nulla
Torna (con la regìa di Marco Carniti) "Music Hall" del francese Jean Luc Lagarce: una metafora amara sull'arte e la sua vanità in una società che non le riconosce più alcuna funzione reale
Jean Luc Lagarce attore, regista, scrittore, classe 1957, morto prematuramente all’età di trentotto anni, è uno degli autori teatrali più rappresentativi (e rappresentati) della sua generazione in Francia, sua patria natia. In Italia lo è un po’ meno, purtroppo: conosciuto grazie a Barbara Nativi che lo rese noto al pubblico italiano all’interno del suo Intercity che si svolge ogni anno al Teatro della Limonaia di Sesto Fiorentino nel 1998, indi poi contemporaneamente all’interesse di Franco Quadri e Luca Ronconi i quali rispettivamente: uno pubblicò una raccolta di testi con la casa editrice Ubulibri e l’altro ha curato un progetto dedicato all’autore francese per il Piccolo di Milano nel 2009 ove furono messi in scena: I pretendenti e Giusto la fine del mondo. A Roma invece silenziosamente e laboriosamente Valentino Villa – un (giovane) regista troppo poco considerato per il valore peculiare che la sua ricerca rappresenta – ha affrontato due commedie, per conto di Face-a-Face progetto di scambi drammaturgici proprio con la Francia curato da Gioia Costa, nell’anno 2012, Noi, gli eroi come saggio di diploma degli allievi dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica (per altro bellissimo) e l’altro per un esperimento di teatro radiofonico con Radio3 Music Hall con Daria Deflorian. E che oggi con identica traduzione (Gioia Costa) è stato messo in scena al Teatro Brancaccino di Roma con l’interpretazione di Sandra Collodel e la regia di Marco Carniti.
La drammaturgia di Lagarce parte dalle piccole cose, da piccoli accadimenti, da particelle infinitesimali che costituiscono (e costruiscono) l’esistenza dei suoi personaggi per poi allargare su un universo di più ampio respiro. Uno zoom all’incontrario, dove dal particolare si giunge con meticolosa ossessività al totale macroscopico. Le sue storie sono quasi sempre di quotidiana normalità: in Music Hall abbiamo la tragicomica storia di una divetta di provincia che ripete angosciosamente sempre lo stesso spettacolo. Come a riversare all’interno di quello squallore fatto di teatri di provincia, di palcoscenici disadorni, di platee semivuote, anche lo squallore della propria esistenza. Nello spazio nudo e crudo della sala di via Merulana, l’allestimento di Marco Carniti prende avvio con un’architettura sonora curata da David Barittoni che via via assume forma e si arricchisce di riferimenti al varietà, della festa paesana, della sagra popolare, di lucette stregate che formano uno spartito luminoso e tracciati precari di scotch gommato. Ma si comincia con una intro proiettata a tutto campo che recita così: «Una società , una città, una civiltà che rinuncia all’arte, che se ne allontana, in nome della viltà, della pigrizia inconfessata, della ritirata in se stessi, che s’addormenta su di sé, che rinunci al patrimonio di domani, al patrimonio in divenire per accontentarsi, nell’autosoddisfazione beata, del valori che crede di aver forgiato e che invece ha soltanto ereditato, questa società rinuncia al rischio, si allontana dalla sua unica verità, dimentica in anticipo di costruirsi un futuro, rinuncia alla sua forza, alla sua porta, non dice più niente agli altri e a se stessa. È fiera e triste, nutrita della sua illusione, crede al suo fulgore, senza seguito e senza discendenza, senza storia futura e senza spirito. È magnifica, poiché lo dice lo crede e resta sola ad ascoltarlo. È morta». E in effetti, di attraversamenti di “cittadelle dell’anima” se ne fanno molti e spesso senza ritorno.
Questa Madame di provincia con i suoi boys/servi di scena, speculari e gemellini (uno eccelle nel canto, l’altro nella danza) sembra essere una evocazione della Madame Genettiana. Lo stesso candore stupefatto di uno spettacolo ripetuto all’infinito fatto di porte immaginarie, senza più motivazioni iniziali, perdutesi in elucubrazioni inutilmente esistenziali. Un marito, un amante che rispecchiano perfettamente i ruoli, oggi, di quegli antagonisti che si prendono cura della loro Signora/Padrona, e quegli Insulti che Peter Handke una volta rivolgeva ad un pubblico passivo e inerte cadono nel vuoto, nel nulla, nella desolazione. Una sala deserta cui destinare la propria arte fa riflettere lungamente sul senso intimo del fare cultura oggi. Un intellettuale, un artista, un banale esecutore, fa fatica a trovare un qualsiasi interlocutore, distratto da troppe cose, parecchio fittizie e poco impegnative, intellettivamente passivo. Ha senso oggi continuare in questa guerra senza un nemico? Non c’è più spazio per una riflessione comune?
Su questo sembra farci riflettere Lagarce ma il fiume di parole che riversa attraverso la sua protagonista è molto altro ancora. Sandra Collodel agisce con orgoglio attraverso la sua Madame, castigata, mortificata dalla sua condizione si lascia vivere e abitare dalla suo personaggio con anfibi e cappottone di stile militaresco fin dall’inizio (è una missione militare la sua?) indosserà infine l’abito estremo dello spettacolo ma il suo disincanto, il suo attonito dolore, la sua criticità di interprete resta fino alla fine. Recita, canta, balla – riflette infine – ma tutto è purtroppo vano. Le sono accanto, il ben ritrovato Sebastian Gimelli Morosini, straordinario corpo urlante di dolore ne L’indecenza e la forma e che qui ritrova la parola in variegate tonalità e Dario Guidi che sullo stesso palcoscenico di fece apprezzare per un ottimo Lucio in un Misura per Misura.