Alla Fondazione Nomas di Roma
Eisenstein segreto
La “Corazzata Potemkin” non era una boiata pazzesca. E il suo autore, Sergei Eisenstein, era anche un raffinato disegnatore. Ce lo rivela una mostra davvero preziosa
Un intellettuale onnivoro e fragile, sensuale e crudele fino al sadismo, così sincero e curioso di sé e del mondo, da non esitare a mettere a nudo le sue debolezze per comprendere e rappresentare le debolezze dell’umanità in cerca di riscatto. È il ritratto mai visto e fuori copione del regista Sergei Eisenstein, padre fondatore del cinema e cantore della rivoluzione russa, che ci regala la mostra finanziata e ospitata fino a gennaio nella propria sede di viale Somalia 33 dalla Fondazione Nomas. Intrigante il taglio di questa rivisitazione, costruita sulle ricerche d’archivio di due giovani curatrici, Marie Rebecchi ed Elena Vogman, che si concentrano non sui capolavori che hanno reso famoso Eisenstein, dalla Corazzata Potemkin a Ivan il terribile, ma su tre film rimasti incompiuti. Tre imprese interrotte o rimaste insabbiate in tre paesi diversi, Messico, Uzbekistan e Ucraina, che esaltano la sua passione per l’antropologia e lo studio dell’inconscio collettivo. Inediti per il pubblico romano e per molti cinefili i materiali che le documentano.
Una straordinaria scoperta sono soprattutto i disegni provenienti da un archivio di Mosca tutt’altro che disponibile a metterli in vista. Disegni che Eisenstein buttò giù su taccuini nei tre anni, dal 1930 al 1933 spesi per la preparazione e le riprese di un film sul Messico, patria della prima grande rivoluzione popolare del Novecento. Ore e ore di girato portate al traguardo del montaggio finale solo dopo la sua morte : quella versione Anni Cinquanta, confezionata sulla traccia dello spartito originale in sei episodi che circola ed è circolata in tutte le cineteche, immortalandone la leggenda. Scene in bianco e nero che, proiettate su uno schermo vicino, fanno ora da contrappunto e da specchio di confronto agli schizzi esposti in una galleria laterale. Pagine di un diario illustrato: una sorta di confessione delle sue fantasie e delle sue pulsioni segrete, trascritta con la frenesia e la tecnica della scrittura automatica dei surrealisti, ma con lo stile di un disegnatore provetto. Come assistere alle sue sedute sul divano di uno psicoanalista e veder materializzarsi i suoi sogni proibiti, i suoi sensi di colpa, i suoi desideri di trasgressione.
Impressionante il calvario di supplizi attraverso cui Eisenstein rilegge e riadatta a matita su piccoli fogli il mito di Prometeo, condannato per aver rubato il fuoco agli dei alla tortura di un’aquila che lo dilania ma non lo uccide. Una ragnatela di linee a matite incornicia una danza ora macabra ora quasi orgiastica di figure: il becco dell’aquila che scava, penetra, lecca ovunque, le membra di Prometeo che ora si piegano per il dolore ora vi si offrono inebriate da un ignoto piacere. E ruoli che in alcune tavole si invertono, come in un rapporto erotico vero: l’uccello rapace che assume le sembianze di un cigno, evocando le forme con cui in un altro mito Giove seduce la bellissima Leda.
Traspare evidente da queste immagini l’inclinazione omosessuale che Eisestein – un padre granitico, una madre distratta e libertina – si trascina appresso dall’adolescenza. Ma che esploderà e si manifesterà proprio in Messico, un paese di contrasti feroci in cui si sente sottratto ai controlli, la tentazione di quei corpi giovani di contadini, scelti in strada o nei villaggi, che gli sfilano davanti al casting e sul set. Il regista Peter Greenaway ne farà la trama di un suo film portato due anni fa al festival di Berlino, che scivola nella caricatura e nel pettegolezzo; la comunità omosessuale fa leva per adottare Eisenstein tra i propri idoli, storpiandone per eccesso d’affetto persino il nome in sir gay.
Ma c’è una vena segreta ancora più pregnante in queste prove d’autore esposte alla Nomas : quella per la crudeltà. Teatrini di crudeltà la vignette con cui Eisestein evoca, durante le riprese di una processione del Venerdi santo, impregnata di sacro e profano, il racconto di Salomè e del San Giovanni decollato. Teatrini della crudeltà i disegni sull’episodio della Veronica che deterge con un velo Cristo che marcia verso il calvario. Un atto di fede e carità che la matita del regista trasforma in un atto violento fino alla blasfemia. E subito dopo in un manifesto di estetica e di stile. La donna non comunica pietà, sembra curarsi solo dell’impronta che sta prendendo e consegnando alla storia. La Sindone come una pelle strappata al volto e usata come matrice per riprodurre a ciclostile, quasi un volantino da corteo, quell’icona. E la pelle che si srotola come metafora di una pellicola.
«Una discesa all’inferno del proprio inconscio e verso i lati più oscuri della storia arcaica e del mito – spiega Marie Rebecchi, una delle curatrici – che Eisestein percorre per cogliere la vera anima della cultura popolare e dell’uomo. Un metodo di approccio etnologico ed estetico che il regista, metterà a fuoco a Parigi, dove trascorre vari mesi prima di imbarcarsi per l’America. Decisivo l’incontro con Bataille, apripista di una nuova ricerca antropologica riformulata partendo dal sadismo e dalle vertigini dell’irrazionale. Decisiva l’amicizia con i surrealisti meno ortodossi. Tra questi il regista Luis Buñuel, che però gli rinfaccia come un tradimento un cortometraggio di mezz’ora sul successo d’una cantante in erba, che Eisenstein ha girato per racimolare un po’ di soldi da un ricco commerciante ebreo, che voleva omaggiare le doti di aspirante soprano della sua amante. Commovente la visita a James Joyce. Lo scrittore quasi cieco si fa raccontare le sequenze della Corrazzata Potemkin che non ha potuto vedere. Eisenstein si fa leggere qualche pagina del Finnegans Wake, in gestazione. Adora e fa sua la teoria joyciana dei flussi di coscienza. È incantato da quel modo di maneggiare la lingua e impastarne in nuove parole i suoni. Un ritmo segreto e sensuoso su cui ha fondato la sua rivoluzionaria teoria del montaggio». Sono aneddoti tutti documentati in bacheca. Tra questi anche l’incontro a Hollywood con Walt Disney: a Topolino, paragonato a un totem indiano, campione di una cultura che partendo dall’immaginario mescola alto e basso, Eisenstein dedicherà un intero saggio.
E finalmente arriva il Messico. Un esplosione dei sensi cui Eisenstein si abbandona, senza pudore e senza cautela. Dando scandalo. Un spiata mette in allarme il Cremlino. E da lì dopo poco arriva un telegramma, che la mostra esibisce come un cimelio in vetrina. È un ordine di rientro immediato. Firmato da Stalin in persona. Poche secche parole fra cui spicca quella di disertore. Gelida come un vento di Siberia. Al regista non resta che obbedire. Mollando tutto il materiale girato al produttore, lo scrittore americano Upton Sinclair. Contrasti ideologici, uniti ai i venti della guerra imminente, porranno fine anche alle avventure eretiche di altri due film incompiuti ,resuscitati da questa mostra davvero imperdibile, che rischia di scivolare nella disattenzione, confinata in una tana consacrata ad altri linguaggi.