Periscopio (globale)
Per Magda Szabó
La scrittrice ungherese, che lavorava sulla memoria per legare passato e futuro, è ancora tutta da rileggere per capire quale sia stato il potere della rivalità e dell’odio nel Novecento
Non capita a tutti di ottenere un premio importante e di vederselo revocare il giorno stesso dalle autorità, prima ancora di aver potuto ritirarlo. Proprio questo è successo alla più importante e nota scrittrice ungherese del Novecento, Magda Szabó, con il premio Baumgarten assegnatole nel 1949, quando l’Ungheria sembrava voler tornare a una sorta d’incerta normalità postbellica per poi virare invece verso il regime comunista, un regime che bollerà tutti gli intellettuali, a prescindere dai contenuti delle loro opere, come nemici del popolo.
Perseguitata dai nuovi politici rampanti, la Szabó, che in passato era stata insegnante liceale e aveva poi lavorato per il Ministero della Pubblica istruzione, sarà licenziata, accusata di “scrittura intimista”, esclusa da ogni incarico ufficiale e da ogni collaborazione, e dovrà ripiegare sull’insegnamento alle scuole elementari. Fino al 1958 non potrà pubblicare nulla. Sposata dal 1947 con lo scrittore Tibor Szobotka, a sua volta traduttore, fra gli altri, di Joyce e George Eliot – un matrimonio solido, che finisce solo con la morte di lui nel 1982 e che probabilmente le dà la forza di resistere a qualunque umiliazione professionale – la Szabó, a differenza di altri intellettuali ungheresi (si pensi solo a Sándor Márai), non espatria, ma, come nel famoso apologo cinese, siede in disparte e aspetta il cadavere del nemico, ovvero il declino dello Stato socialista, rivelandosi abilissima a cogliere ogni momento d’incertezza e di ammorbidimento, che il regime kadarista qua e là si concede, per ritrovare i suoi lettori. Fino alla piena riabilitazione, che avverrà però solo negli anni Settanta. Intanto, tesse la sua tela a fianco di quegli scrittori e intellettuali che si erano impegnati a non collaborare mai con il nuovo, odioso regime, molti dei quali scelsero addirittura, con deliberata lucidità, di non mettere al mondo dei figli per non farne nuovi sudditi.
A cent’anni dalla nascita – a Debrecen il 5 ottobre 1917 – e a dieci dalla morte, avvenuta a Kerepes il 19 settembre 2007, Magda Szabó è ricordata oggi soprattutto per una manciata di romanzi, il più noto dei quali, La porta (1987), è uno dei capolavori del Novecento. La storia è apparentemente semplice, con un tocco di descrizione autobiografica che la rende ancor più intrigante: protagonista ne è una scrittrice appena riabilitata dal regime, di nome Magda, sposata con uno scrittore che poi nel corso del romanzo si ammalerà gravemente. Il fulcro dell’opera non sta però nella relazione fra i due, benché la figura del marito sia importante, né nella descrizione dell’ambiente letterario da cui la scrittrice torna finalmente a essere circondata, ma in un fatto banale, a partire dal quale si svilupperà tutto il resto. La riabilitazione comporta infatti per la scrittrice un aumento del carico di lavoro e la proliferazione degli impegni letterari nonché il trasloco in una casa più grande, e d’ora in avanti avrà molto banalmente bisogno di una domestica tuttofare che la aiuti a gestire la vita privata. È così che Magda incontra Emerenc, una donna non più giovane, bizzarra, laconica, spesso ostile, dotata di un’inspiegabile autorità, tanto che alla fine non sarà tanto Magda ad assumerla, quanto Emerenc a decidere di voler davvero lavorare da lei. La donna è abituata a lavorare duramente, ma lo fa utilizzando a volte strumenti antidiluviani, che suscitano in Magda sorpresa, quando non una certa indignazione. Inoltre, non permette a nessuno di varcare la soglia di casa sua, e molto probabilmente nasconde qualche segreto, forse legato ai duri anni della guerra e del comunismo. Il carisma di Emerenc si estende anche al mondo animale: se il cane (maschio, ma che lei insiste a chiamare con un nome femminile, Viola) è formalmente di proprietà di Magda e di suo marito, in realtà egli stesso considera Emerenc come sua padrona a tutti gli effetti. È insomma nel rapporto fra le due donne, così diverse se non addirittura contrapposte, e nell’affannosa ricerca, da parte di Magda, della soluzione del mistero costituito dalla figura stessa di Emerenc, che va visto il fulcro del romanzo, nel quale s’irride implicitamente all’inadeguatezza di quella che siamo soliti chiamare comunicazione fra gli esseri umani.
A proposito di difficoltà di comunicazione, nel precedente La ballata di Iza (1963) la Szabó aveva affrontato il malessere di un’anziana rimasta vedova, che la figlia fa trasferire presso di sé, a Budapest, dalla campagna dove viveva e dove aveva tutti i suoi punti di riferimento. Un altro notevole romanzo, L’altra Eszter (1959), descrive invece, con una prosa velatamente autobiografica e densa d’invenzioni stilistiche, la potenza della rivalità e dell’odio per una creatura apparentemente più fortunata che accompagneranno la vita di una donna. In entrambi i casi, come del resto nella Porta, al centro dell’attenzione sono i rapporti umani, l’inestricabile complessità delle relazioni che ciascuno di noi tesse con l’ambiente circostante, gli inevitabili legami di dipendenza che s’instaurano anche nostro malgrado.
Scriveva la Szabó ne L’altra Eszter: «Gli esseri umani su questa terra sono immortali, finché qualcuno li ricorda loro vivono», frase che di per sé non sembrerebbe troppo originale; ma poco più avanti aggiungeva, con una spiegazione che è un colpo di coda quasi beffardo: «Nel corso degli anni i ricordi si propagano negli esseri umani come le metastasi di un cancro». La memoria, dunque, come malattia inarrestabile, tentacolare, che si nutre del nostro corpo e delle nostre anime: e da questo non deriva forse che sono proprio i ricordi, di sé e degli altri, a non darci pace?