Visto al Palladium di Roma
Un Genet borghese
Anna Bonaiuto, Manuela Mandracchia e Vanessa Gravina portano in scena una nuova versione del capolavoro di Genet dove la forza eversiva del testo trascolora in una sorta di dramma borghese
Caposaldo del teatro del Novecento, Le Serve di Jean Genet, è un dramma/commedia di un’importanza capitale nella nuova drammaturgia contemporanea: a scoprire e “sdoganare” questo autore fu Jean-Paul Sartre con il celebre saggio Santo Genet, commediante e martire. Le Serve si basa sulla menzogna, sul travestimento, sul rifratto (ispirato ad un episodio di cronaca). Si aggira fra le parti del teatro e in esso vuole trovarvi casa. In teoria, il teatro stesso si fonda sulla menzogna: degli uomini immaginano di esserne altri e altri ancora assistendo a quella finzione vi ci trovano elementi edificanti in cui specchiarsi e trovarvi giovamento. In quel filtro livido che si chiama catarsi, Genet smaschera questa convenzione, questa dissimulazione creando un gioco di specchi che si moltiplica all’infinito.
Veniamo al racconto minuto della commedia; così lo riassume Sartre: «Due cameriere amano e odiano insieme, la loro padrona. Esse hanno denunciato l’amante di questa con delle lettere anonime. Venendo a sapere che sarà rilasciato in mancanza di prove, e che il loro tradimento sarà scoperto, tentano, una volta di più di assassinare la Signora, falliscono, vogliono uccidersi a vicenda; finalmente una di esse si dà la morte, e l’altra, sola ebbra di gloria, tenta di innalzarsi, con la pompa degli atteggiamenti e delle parole, fino al magnifico destino che l’aspetta». Questa è la nuda trama. L’autore innesca un continuo scambio di ruoli, ove Claire finge di essere la Signora, in sua assenza, e Solange simula di essere Claire. Ma i ruoli non sono fissi, sono interscambiabili, in ogni dove e in ogni momento. Se poi a questo artifizio di scatole cinesi – fra intreccio, sordide trame e significato – si aggiunge che il desiderio a monte dell’autore, quando si tratta di ruoli femminili, sia quello di far interpretare quelle parti a dei giovanetti, in quanto alla soglia di una definizione genitale, la propagazione è gravitazionale, amplificata fin nei più reconditi misteri del teatro e della fantasia.
È Giovanni Anfuso, ora a riportare in scena Le Serve con nuova traduzione di Gioia Costa (quella originale era di Giorgio Caproni) e una struttura produttiva sontuosa che mette insieme la compagnia Teatro e Società, il Biondo di Palermo e lo Stabile di Catania: lo spettacolo, visto al Teatro Palladium di Roma, risolve il desiderio/volontà di Genet facendo interagire sul palcoscenico tre attrici di diversa provenienza ed estrazione per accentuarne la diversità e l’intersezione di cui la pièce vive ed è intrisa. Anna Bonaiuto, Manuela Mandracchia e Vanessa Gravina ne sono le impersonificazioni, pregiate nella loro diversità interpretativa, in una distribuzione così ripartita: Solange, Claire e Signora. La scena di Alessandro Chiti fonde e assembla più elementi apparentemente discordanti ma che nell’insieme danno vita ad un bric-à-brac funzionale, se non intuitivo, come quel rigido letto a baldacchino, catafalco, sarcofago, secretaire, o infine ribalta ove “inscenare” la propria parte. E un verde acido predomina sullo sfarzo degli eleganti costumi di Lucia Mariani. I fiori che l’autore vuole dappertutto, come nauseante odore di morte, sono disseminati per terra come ninfee di un enorme lago rispecchiante su cui le interpreti impalpabili vi tracciano i loro percorsi maledetti e criminali.
Chissà se Genet ebbe a leggere Istruzioni alla Servitù di Jonathan Swift, ma vi è in questo gioiello della drammaturgia del Novecento tutto un abecedario dei diritti e dei doveri dei servi verso i padroni che sembra attingere da quel manoscritto dell’autore irlandese, e il regista Giovanni Anfuso denocciolando il testo dell’ambiguità e della crudeltà che si stabilisce fra queste classi, in perenne opposizione, ne restituisce un dramma borghese in cui il personaggio, servo o padrone, ricerca affannosamente un proprio ruolo all’interno di una società in perenne decadimento. Lo spazio angusto e prospettico, con quello specchio/ghigliottina sul fondo, non lasciando vie di scampo, induce verso un’inevitabile estinzione dell’umanità attraverso una quanto mai veritiera perifrasi homo homini lupus.