I vagabondaggi di una maschera
Pulcinella in Sardegna
Diario di viaggio a San Sperate, vicino a Cagliari, dove l'arte incontra la storia sarda. E dove gli artisti diventano "personaggi" anche senza dover interpretare spettacoli: una contraddizione creativa
Sono stato a San Sperate, in provincia di Cagliari, il 29 e 30 settembre ospite di Sant’Arte-Festival di arti visive, organizzato dalla Fondazione Sciola, e ho dimenticato ancora una volta me stesso per far parlare il mio Pulcinella. Non per aver fatto uno spettacolo ma, ancora una volta, per diventare spettacolo.
L’evento a cui Pulcinella ha preso parte è stato la presentazione del libro Odino nelle terre del rimorso, scritto da Vincenzo Santoro. All’incontro erano presenti l’autore, il critico Mario Faticoni, l’editore Domenico Ferraro, il direttore della cineteca sarda di Cagliari Antonello Zanda, il maestro della Banda Pulcinella Fabio Lombrici.
Da quando ho iniziato a fare teatro non ho mai abbandonato la maschera della lingua che risente della lezione di Enzo Moscato, Leo De Berardinis, Raffaele Viviani, Eduardo de Filippo, Totò, ma anche di musicisti come Pino Daniele, Enzo Gragnaniello, Marcello Colasurdo, Enzo Avitabile. Da sempre ho trovato nel pubblico il mio strumento per far dialogare vita e scena. Banalmente detto vuol dire improvvisare. Ma se ti relazioni con i misteri dell’arte e degli esseri umani, recitare con lo spettatore vuol dire attraversare il percorso accidentato della performance insieme, cercando nel pubblico il Coro che ci manca. Così come ci manca la Comunità.
Il giorno prima della presentazione del libro di Santoro, con gli amici di Antas Teatro, abbiamo fatto un giro nel Paese Museo di San Sperate e ci siamo recati nel Giardino Sonoro che ha creato Pinuccio Sciola, artista e scultore morto lo scorso anno. Percorrere le strade di San Sperate vuol dire affondare l’animo nella visione di una bellezza scritta sulle pareti delle case, attraverso i numerosi murales ma anche grazie a diverse sculture o messaggi poetici scritti sui muri. Ma entrare nel Giardino Sonoro di Sciola per me ha significato un’immersione nel suono dell’origine. Lo stesso suono che mi ha accompagnato il giorno dopo durante la performance pulcinellesca, senza essere cosciente che quel giardino e le “pietre sonore” di Sciola avevano trovato vita dietro la mia maschera e, donandole allo spettatore, sono rinato. E dopo venti anni che indosso la maschera, per me vuol dire che era necessario percorrere quelle strade di un piccolo paese di provincia, che era necessario disintossicarsi dall’inquinamento acustico delle città e trovare il Getsemani del suono grazie a Sciola mago della pietra (ma durante il festival si è parlato anche della sua maestria con il legno). Necessario era incontrare Nino Landis che aveva conosciuto l’Odin Teatret nel 1973 a San Sperate, e ha detto qualcosa che mi ha commosso. Il signor Nino, parlando degli attori dell’Odin, si è espresso così: «Quegli attori indossavano i loro personaggi anche quando smettevano di recitare. Anzi il loro teatro non era soltanto lavoro ma era la loro vita». Allora quanto conta uno spettacolo? Quanto conta vedere Personaggi fuori da uno spettacolo?
Spesso mi chiedo cosa rappresenti Pulcinella per me. Ma anche cosa rappresenta per gli altri. Spesso i viaggi mi aiutano a pormi da “straniero” dentro lo stereotipo del Cetrulo. A volte penso se Pulcinella possa dirsi napoletano e sempre più spesso, grazie ai “pellegrinaggi” e agli incontri casuali, dico che forse il mondo del teatro ha perso la capacità di ascoltare un murales e vedere un suono scritto sul nostro futuro. Ha dimenticato che inseguire soltanto spettacoli, bravi attori, bravi registi o intelligenti direttori di teatri pubblici, fa dimenticare che la periferia del nostro mestiere è spesso più viva degli algoritmi ministeriali e delle giornate lavorative. Dal 1997 indosso la maschera di Pulcinella e per il Ministero ho soltanto qualche giornata lavorativa, pur avendo lavorato metà della mia vita. Quanto conta uno spettacolo? Quanto costa essere un attore “dialettale”?
Io dico con Ennio Flaiano: «Perché il teatro “in lingua” non fa né ridere né piangere? Forse perché la realtà della vita supera da noi sempre la fantasia dei commediografi: e la realtà, così com’è, non può essere portata sul palcoscenico se non in dialetto».