Al Palaexo di Roma
Un’arte impalpabile
Il caos globale regna in “Digital Life”, la mostra sui nuovi linguaggi della creatività. Video, finzioni, eccessi, luci, false fiction e falsi spot: a volte l'azzardo va a braccetto con il vuoto di idee
Digital life. Come suona bene, come scivola via morbido nel fruscio della lingua inglese il titolo della mostra sui nuovi linguaggi della creatività, che per l’ottavo anno consecutivo affianca il Roma Europa Festival. E che per la prima volta approda fino al 7 gennaio nelle sale del Palaexpo, che l’assessore comunale alla cultura Luca Bergamo vorrebbe consacrare alla divulgazione scientifica.
Digital Life. Sì, proprio un titolo suadente come un canto di sirene, che accomuna e nasconde la distanza e i conflitti tra due abissi tutt’altro che semplici da saldare con un ponte di sicura e indolore armonia: la vita che è un fine e una misura d’umanità e la tecnologia digitale che è uno strumento sempre meno rassegnato ad un ruolo subalterno, sempre più orientato a sostituirla e snaturarla con altri artifici.
Il rischio per gli artisti di oggi, giustamente tentati dall’attraversare questi laboratori dove si distilla il futuro, è di rimanere in superficie e scivolare verso esperienze da lunapark sensoriali. Come quella che ci propone la croata Ivana Franke. Una stanza immersa nel buio rotto solo da una luce che proiettata su impalcature geometriche e deviata da velature trasparenti si frantuma in scie di puntini lucenti che rendono vacillante e spaesato lo sguardo. O come la macchina ancora più sofisticata che il gruppo Granular-Synthesis ripresenta al Palaexpo in una versione in 3D. Una sala circolare completamente fasciata da uno schermo su cui scorrono a velocità vertiginosa spezzoni di immagini, superfici squarciate, sporgenze, guizzi di serpenti dilatati dagli speciali occhialetti che il visitatore indossa. Un turbine improvvisamente interrotto da una sorta di imbuto che si apre sui lati, inghiottendo ogni cosa e trascinando con sè lo sguardo che a questi fantasmi si era aggrappato. Un trucco da illusionisti, ma non male l’idea di associare allo sballo visivo il senso del precipizio, della distruzione. Non una proposta di disintossicazione ma almeno un segnale di pericolo.
Cavalca invece, porgendocela come un appiglio d’immedesimazione, la via più lieve di una stralunata poesia l’installazione realizzata da Robert Henke: in terra un tappeto di polvere di fosforo, in alto un proiettore di raggi ultravioletti che scava e disegna tracciati luminosi e ondulati come solchi di un processo di erosione. La polvere si accende come una miccia, compone una ragnatela semovente di piccoli lampi come stessimo osservando un volo di lucciole.
L’opera più riuscita di questa immersione totale in un universo di immagini in movimento e presagi del futuro che ci attende è un lungo video, Allegoria sacra, firmato da AES+f, un collettivo russo che associa creativi di varie discipline, moda, pubblicità, architettura, design e si è imposto in tutte le più importanti ribalte internazionali. È una tragica e grottesca epopea in vari quadri. Ambientata nella sala d’attesa d’un aeroporto che è insieme teatro e dimensione esistenziale di un tempo sospeso e intermittente che cuce insieme con apparente distacco passato e futuro. A popolarlo è un cast di personaggi improbabili anche se catturati dalla realtà meticcia di oggi o da un rigurgito di leggende antiche: tra hostess e passeggeri di varie etnie c’è un poliziotto travestito con una corazza medievale, un San Sebastiano trafitto, un centauro con una capigliatura punk, un vecchio che agonizza su una barella, e così via. Un cast di attori che si muovono al rallentatore, ripetendo gesti che però cambiano continuamente come le parti che il copione assegna loro. Tutti ora vittime e ora carnefici, pietrificati in volti e corpi inespressivi e patinati da rivista di moda che non lasciano trasparire alcuna emozione. Fuori nevica. Tra gli aerei che atterrano nella nebbia ce n’è anche uno enorme camuffato da dragone cinese. Poi di colpo la scena cambia. Esplode improvvisa la violenza. Colpi di pistola, coltelli acuminati, teste decapitate che rotolano nella hall, tessere di un gioco al massacro di cui non si comprendono le regole. E ora ecco siamo in una foresta tropicale. Tra i passeggeri appaiono le sagome di un gruppo di selvaggi, il corpo dipinto come scheletro. Uno scaglia in aria una lancia ed ecco atterrare nella foresta anche un disco volante. Saltate le rigide partiture della storia umana. Saltati i confini tradizionali: un film?, un balletto?, uno spot pubblicitario dilatato a dismisura?, un nuovo genere di spettacolo per una platea narcisa? Tutto questo insieme: una miscela di contaminazioni che con glaciale distacco e abili manipolazioni subliminali ci precipita nel caos del mondo globalizzato di oggi. Un sasso che affonda in una palude di finta e insensata bellezza, ne rompe la superficie.
La mostra si conclude con due passerelle riservate a due fondazioni romane, create da assidui collezionisti del contemporaneo: la Fondazione Giuliani e la Nomas Foundation. Opere d’arte realizzate da artisti da mercato e da museo che hanno scelto il linguaggio delle immagini in movimento, sfruttando la libertà, a nostro avviso eccessiva, che il circuito di circolazione di questi prodotti gli concede. Libertà di utilizzare ogni tipo di codice, invadendo a volte con spudorata ignoranza territori di comunicazione altrui, come la fiction cinematografica e il documentario. O puntando su percorsi di autolegittimazione concettuale. Con risultati molto difformi. La scommessa più interessante è quella della Nomas, che ha deciso di riservare la sua variegata compilation di video ad una platea di bambini e ragazzi, età dalle elementari alle medie. Alle proiezioni saranno accoppiate conferenze e lezioni dal vivo tenute da esperti o dagli stessi autori, secondo un calendario ancora da stabilire. Il canto di sirene del futuro che avanza approda così nelle scuole. Chissà che questi tentativi di addestramento non partoriscano categorie di giudizio meno sommarie e complici di quelle di oggi, e offrano agli allievi qualche utile scudo per difendersi dal rumore e dall’abbraccio incondizionato delle mutazioni innescate dalle tecnologie di comunicazione di massa, che avvolgono e minacciano la condizione umana di questo nuovo millennio.
Digital life. Attenti a consegnarci mani e piedi, testa e pancia, al dominio e alla fascinazione dell’intelligenza artificiale delle macchine. L’avviso ai naviganti echeggia più scandito, per una curiosa e non calcolata coincidenza, da due istallazioni esposte sempre qui al Palaexpo, ma in un’altra mostra, ben confezionata e ben impaginata, allestita al secondo piano del padiglione di via Nazionale e intitolata Mangasia, per raccontare le origini e l’inarrestabile ascesa in tutto l’Oriente dei fumetti manga giapponesi. Quasi duecento anni di storia che parte degli schizzi burleschi del pittore Hokusai e altri artisti a cavallo tra Settecento e Ottocento, e si trasforma in un business colossale che contagia con infinite varianti l’immensa area di tutti i paesi vicini, dall’India alle Filippine, dal Bangladesh al Pakistan, dalle due Coree alla Cina. Per gli appassionati dei fumetti e non solo uno scrigno di chicche preziose e divertenti scoperte.
La prima crepa di inquietudine è introdotta da uno schermo su cui scorre un filmato che documenta uno spettacolo in un locale di Tokio. Del vivo o quasi dal vivo. Perché in basso a saltellare e agitare le braccia è un pubblico vero. Ma sul palco a tenere quel concerto da sballo è un complesso ologramma che da voce e vita a tre dimensioni ad una celebre eroina dei manga. Un fantasma. Un canto di sirena appunto. In quale mare, contro quali scogli ci attende il naufragio?
La seconda stonatura è il rimbalzo d’allarme di un gioco interattivo, ancora apparentemente più innocuo, offerto a fine percorso. Sullo schermo gigante a tutta parete c’è un enorme robot, visto e rivisto in uno dei tanti cartoni per la tv, che se ne sta dritto e immobile contro uno sfondi di grattacieli. Giù in basso c’è una grande macchina da ripresa azionata da un computer e puntata verso una pedana, dove a turno chi vuole è invitato a salire e a muoversi come gli pare. Ogni gesto però si trasmette a quel Golem su in alto che così riprende vita. Lo obbliga a imitarlo e ripeterlo. A balzare in avanti minaccioso se ci si sbraccia in modo troppo aggressivo. A scalciare i bidoni che ha di fronte se chi sta in pedana agita i piedi e si mette a ballare. Una mimesi da algoritmi binari. Un’attrazione trapiantabile in ogni casa, se si compra la macchina giusta. È il futuro virtuale che batte alle porte. Uno o due passi in più e si entra nell’incubo di Blade Runner.