Dopo la strage di Las Vegas
In guns we trust
Tra il 2004 e il 2013 sono stati oltre 300mila i morti negli Usa per omicidi e stragi, ma anche suicidi e incidenti provocati da un uso errato delle armi. È il prezzo dovuto a una lobby potentissima; e a un'assurda interpretazione del concetto di libertà
Il primo agosto 1966 – era una domenica – poco prima di mezzogiorno, Charles Whitman, un ragazzo di 26 anni, biondino, atletico, ex marine, addestrato fin dall’infanzia, insieme ai due fratelli Patrick e John, all’uso delle armi da fuoco dal padre, cominciò a sparare dall’alto della torre dell’Università del Texas, a Austin, uccidendo nel giro di mezz’ora 15 persone e ferendone 30. Whitman era in cura presso il reparto psichiatrico dell’Università a causa di ricorrenti e intense cefalee, ma era considerato un caso in via di miglioramento. Prima di cominciare a sparare con i suoi cinque fucili di alta precisione dalla terrazza panoramica posta al 28esimo piano della torre, Whitman aveva già ucciso nell’ordine la madre, la moglie e una receptionist. Il conflitto a fuoco che scoppiò nei novantasei minuti successivi, quando la guardia nazionale e tutte le forze di polizia in dotazione alla contea di Travis giunsero sul posto, fu piuttosto animato, per non dire caotico. Intorno alle 13 e trenta, due poliziotti, Houston McCoy e Ramiro Martinez, riuscirono a penetrare nella terrazza, sorprendendo l’omicida alle spalle ed uccidendolo con due colpi alla nuca.
Quello che avvenne in quella caldissima mattina d’agosto nel campus texano fu il primo “mass shooting”, un’espressione difficile da rendere in italiano, ma che si capisce benissimo se messa vicino ad altri nomi significativi come Columbine, Virginia Tech, Newtown, Aurora. Il massacro di Austin, ovviamente, fece molta impressione all’epoca e fornì l’ispirazione per diversi libri e film. Lars Gustafsson, che ha insegnato nell’Università del Texas per più di vent’anni, nel suo racconto Tennisspelarna – pubblicato nel 1991 da Guida col titolo, un po’ insulso, Il tennis, Strindberg e l’elefante – descrive la scena della strage con squisita ironia. Chiaramente ispirato all’episodio è anche L’uomo sul tetto, di Maj Sjöwall e Per Wahlöö, uno dei dieci romanzi della collana dedicata al detective Martin Beck; da questo romanzo, poi, è stato tratto l’omonimo film di Bo Widerberg, un poliziesco che in patria fece epoca, e che regge il confronto coi migliori esempi americani. Curiosamente ho citato solo autori svedesi.
Lo scorso primo ottobre – anche stavolta era una domenica – un uomo, Stephen Paddock, dalla sua stanza d’albergo al 32esimo piano del Mandalay Bay Hotel a Las Vegas, ha aperto il fuoco contro il pubblico, 40mila persone circa, che partecipava alla giornata conclusiva del Route 91 Harvest Festival, una rassegna di musica country, facendo (per ora) 59 morti e più di 500 feriti, la peggiore strage da armi da fuoco della storia degli Stati Uniti. Stephen Paddock, che si è suicidato prima che la polizia potesse irrompere nella sua camera, era un pensionato di 64 anni, bianco, ricco (aveva fatto una piccola fortuna nel settore immobiliare), con la passione per il gioco, il volo, la caccia e le armi, regolarmente acquistate e registrate. Nella sua camera – era nell’albergo già da tre giorni – gli investigatori hanno trovato 23 armi da fuoco, tra le quali due fucili sistemati su treppiedi alla finestra e diversi bump-stock, un congegno legale, acquistabile in qualsiasi armeria (oltre che su internet), per trasformare in automatici i fucili e le armi semiautomatiche di cui disponeva, accrescendo così la loro capacità di fuoco. Nell’abitazione di Stephen Paddock a Mesquite in Nevada, sono stati trovati altri 19 fucili e parecchie migliaia di munizioni; nella sua auto, parcheggiata nei pressi dell’hotel, è stato ritrovato del nitrato d’ammonio, un composto chimico utilizzato per produrre esplosivo. Il fratello del killer, Eric, rintracciato da numerose testate giornalistiche immediatamente dopo la strage, non riesce a spiegarsi l’accaduto; la compagna, Marilou Danley, rientrata precipitosamente dalle Filippine e interrogata a lungo dalla polizia, ancora meno; il resto dell’umanità, figuriamoci!
Negli Stati Uniti vengono definiti mass shootings – la cui traduzione letterale sarebbe “stragi compiute sparando nel mucchio” – quelle esplosioni di violenza nelle quali i morti e i feriti, compreso chi ha sparato, sono almeno quattro. Secondo il database online massshootingtracker.org – che usa come fonti gli articoli di giornale e quindi non è da considerarsi ufficiale – nell’anno corrente, prima della strage di Paddock, ci sono già stati 336 mass shootings (quasi uno al giorno), con 408 morti e 1219 feriti. Dall’inizio del 2013 a oggi, 10 ottobre 2017, in questo tipo di sparatorie sono morte 1859 persone e altre 7299 sono rimaste ferite. Sono numeri che fanno impressione, ma sono una goccia nel mare rispetto ai circa 11.000 omicidi con armi da fuoco commessi negli Usa ogni anno. Secondo il Dipartimento di Stato e i Centers for Disease Control and Prevention, tra il 2004 e il 2013, ci sono state 316.545 vittime causate sul suolo americano dalle armi da fuoco; a queste vanno aggiunti 36 morti in atti terroristici avvenuti negli Stati Uniti più 277 cittadini statunitensi uccisi all’estero in attacchi terroristici, per un totale di 313, lo 0,1% del numero complessivo più o meno. A causare questi oltre 300mila morti non ci sono, ovviamente, solo gli omicidi e le stragi, ma anche suicidi e incidenti provocati da un uso errato delle armi. Solo nel 2013, per esempio, ci sono stati 33.169 morti, così suddivisi: 11.203 omicidi, 21.175 suicidi, 505 incidenti e 281 decessi con motivazioni ancora incerte. Una cifra che è pari a un terzo dei soldati americani morti durante l’intero conflitto in Vietnam.
Abbiamo un problema, Houston! Sì, abbiamo un problema! Il problema è che su 318 milioni di abitanti negli Stati Uniti circolano 310 milioni di armi acquistabili praticamente ovunque; sul territorio americano ci sono migliaia di negozi in cui si possono acquistare le armi, in alcuni casi anche in aree dedicate dei grandi supermercati. In linea di massima chiunque abbia più di 21 anni, in quasi tutti gli Stati americani, può acquistare una pistola, mentre i maggiori di 18 anni possono acquistare un fucile o un fucile a canna liscia. Per l’acquisto è richiesto un documento di identità, in modo da registrare i dati e associarli a quelli dell’arma e verificare che la fedina penale sia pulita. Se il cliente vuole comprare più armi in un periodo di tempo inferiore ai cinque giorni, l’esercente deve inviare una notifica al Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives. Non possono acquistare armi i tossicodipendenti, i fuggitivi e le persone con disturbi psichici, ma spesso i problemi mentali vengono taciuti ai database di controllo per via della privacy. I blandi controlli federali, poi, vengono di frequente boicottati dalle leggi vigenti nei singoli stati ed elusi dalla possibilità di comprare una pistola o un fucile alle fiere di armi organizzate praticamente ogni settimana in molti stati, o acquistarli direttamente da un privato cittadino o da un membro della propria famiglia.
Una riforma, in senso restrittivo, della legge sul possesso di armi viene invocata dopo ogni strage – cioè abbastanza spesso – ma, altrettanto regolarmente, poi, non se ne fa niente. Anche stavolta accadrà lo stesso: ci sono tutti i presupposti. A tale proposito, in uno degli ultimi discorsi pronunciati dall’ex presidente Obama – che pure ha fatto o potuto fare ben poco per cambiare la situazione – c’è la denuncia che l’America spende ogni anno somme altissime nella lotta al terrorismo (quello 0,1% di prima) mentre «il Congresso, esplicitamente, vieta anche la raccolta di dati su come si potrebbero potenzialmente ridurre i decessi da arma da fuoco». L’ultimo presidente americano che è riuscito a intervenire sulla questione è stato Bill Clinton che nel 1994 emanò una legge che regolamentava in qualche modo la vendita di armi per sette anni. Il suo successore, George W. Bush, però, nel 2001, non rinnovò le restrizioni, preferendo dare ascolto alla NRA (National Rifle Association), la più importante lobby dei possessori di armi, e alla maggioranza dell’elettorato americano, che continua ad appellarsi al secondo emendamento. E già, perché, inspiegabilmente, almeno per noi europei e per il resto del mondo, buona parte dell’opinione pubblica americana ritiene che il quadro normativo in materia sia sufficiente; la percentuale di coloro che vorrebbero leggi più severe – a meno che non ci si trovi a ridosso dell’ennesima strage – non arriva nemmeno al 50% (fonte Gallup). Secondo un’indagine del 2014 del Pew Research Center – un istituto con sede a Washington che fornisce informazioni su problemi sociali, opinione pubblica, andamenti demografici negli Stati Uniti e nel mondo – per il 52% degli intervistati è più importante il diritto degli americani a possedere armi che cercare di controllarne, per legge, il possesso. Sempre secondo lo stesso istituto di ricerca, circa un terzo di tutti gli americani con figli sotto i diciotto anni, e che quindi vivono ancora in famiglia, hanno armi in casa.
Ogni anno le lobby delle armi organizzano nelle scuole dei corsi di formazione volti a usare correttamente un’arma e a instillare nelle giovani generazioni il concetto di «violenza buona», uno stupefacente ossimoro. Insegnano a sparare e a come ci si può divertire al poligono di tiro. Il tutto rivolto a bambini dai 3 ai 5 anni. Negli Stati Uniti i bambini vanno al poligono di tiro come si potrebbe andare al luna park o alla spiaggia. A Las Vegas, a un paio di chilometri dallo Strip, la strada dove si affacciano i principali casinò, la strada dove si affaccia anche il Mandalay Bay Hotel, ci sono diversi negozi con sala di tiro inclusa. Arrivi e al botteghino hai il cartellone con i prezzi e i pacchetti in offerta. Sembrano gelati, invece sono mitragliette e revolver. Devi fare la coda, c’è sempre molta gente. Persone del posto e tanti turisti ai quali è permesso di provare anche una M60. Tutto si svolge in modo professionale, con gli assistenti che ti seguono e alla fine ti regalano la maglietta più i tuoi bersagli traforati.
La NRA e i produttori di armi sembrano puntare molto sui minori, i loro futuri clienti. Le fabbriche hanno studiato armi dai prezzi abbordabili e sopratutto che non danno contraccolpo. Li vendono anche in rosa, un colore che possa piacere alle bambine. L’idea, lanciata da una ditta della Pennsylvania nel 2008, si è rivelata un grande successo commerciale: quasi 80 mila i pezzi piazzati in tutti gli Stati Uniti. Un’altra ditta, la Keystone Sporting Arms, produce un’arma appositamente progettata per i bambini, il fucile Crickett calibro 22, pubblicizzato dall’azienda stessa con lo slogan “la mia prima arma”. Se uno pensa che negli Stati Uniti gli ovetti Kinder sono vietati per legge perché pericolosi a causa della sorpresa contenuta al loro interno, gli vengono le vertigini. Per inciso, il 30 aprile 2013 a Burkesville, Kentucky, Kristian Sparks, un bambino di cinque anni ha sparato con un fucile modello Crickett che aveva ricevuto in regalo dai genitori alla sorella minore Caroline, di due anni, uccidendola.
Non c’è molto altro da dire.
Sonny, l’infermiere di 29 anni del Tennessee, è stata la prima vittima del massacro di Las Vegas ad essere identificata. Poi ci sono Rachael, la poliziotta di Manhattan Beach, e Sandra, la professoressa californiana. E ancora, Jenny, la maestra d’asilo; Susan, l’impiegata; Lisa, la segretaria, come lo era Bailey. Non hanno avuto scampo nemmeno Denise, 50 anni, nonna e pensionata della West Virginia; Rhonda, la designer di Boston; Jennifer ed Angie – solo 20 anni – entrambe della California; Jessica originaria del Canada; e Neysa l’imprenditrice.
Anche loro hanno ben poco da aggiungere.