La voce del poeta: Andrea Longega
Ferite del presente
Tratti lirici e terrestri nei versi in dialetto nativo dell’autore veneziano. Tra i temi della sua ultima raccolta “La seconda cìcara de tè”, quello del viaggio con poesie ambientate nell’isola di Creta. Mentre Atene, con i suoi fasti passati e il grigiore dell’oggi, è la protagonista di una prossima plaquette
Il veneziano Andrea Longega si esprime nel dialetto nativo con una sorta di innata grazia, quasi di pudore. Il suo sguardo sembra derivare da quello di Saba e Penna, nonché di certo Valeri, legato com’è alla scoperta di una realtà dai tratti lirici e, nondimeno, terrestri. Longega ha al suo attivo varie raccolte, fra cui Finìo de zogàr (2012) e Caterina (come le còe dei cardelini) (2013). Recentissima è la pubblicazione di La seconda cìcara de tè (100 pagine, 15 euro), uscita per le Edizioni ATì.
Può parlarci della sua ultima raccolta?
Ho fatto lo sforzo di ampliare almeno un po’ l’orizzonte, toccando temi che fino a questo momento non avevo affrontato così da vicino, non certo per disinteresse ma forse solo per mancanza di una vera e duratura esperienza degli stessi. Il libro si intitola La seconda cìcara de tè. La sezione di apertura è dedicata al tema del viaggio, molte le poesie ambientate sull’isola di Creta, e al tema amoroso. Nella seconda invece metto me stesso, spero con ironia, sotto la lente del microscopio per individuare piccoli e grandi difetti, piccole e grandi mancanze. La terza sezione è composta da un poemetto a tre voci, una maschile e due femminili, e penso sia la cosa migliore del libro. In essa ritornano, assieme al tema della morte che per un poeta è imprescindibile, tutti i temi portanti del libro, non ultimo quello che anima la sezione di chiusura, la cui atmosfera è interamente veneziana. Mi piacerebbe riuscire a presentarlo a qualche lettura affiancato proprio da due voci femminili. Penso abbia una bella impronta teatrale.
Che particolarità presenta il dialetto che adopera?
Si tratta di un dialetto abbastanza italianizzato ormai, ma non è annacquato a tavolino per essere compreso con più facilità; è il dialetto parlato dalla mia generazione. Mi piace però qua e là adoperare termini che io in realtà parlando non adopero. Sono termini che usavano, ad esempio, i miei genitori, se non i miei nonni. Voglio preservarne così la memoria. Anche nell’ortografia faccio delle scelte precise, tendenti alla semplificazione, all’italianizzazione, cerco poi anche di aiutare il lettore non veneziano evidenziando alcuni accenti, alcuni suoni.
La sua poesia ha a che fare con una forte impronta autobiografica, vissuta in rapporto a un ambiente particolare qual è quello veneziano.
Non credo il rapporto sia così diretto. Probabilmente avrei scritto comunque poesie dal forte contenuto autobiografico anche se fossi vissuto in un’altra città. Certo è che avendo fatto la scelta di scrivere in dialetto, è stato proprio il dialetto a chiamare in causa un certo tipo di paesaggio (quasi mai malinconico e decadente come in realtà ci si potrebbe aspettare), che è quello lagunare, quello delle calli e dei campielli, e a stimolare un certo occhio molto vigile nei confronti delle persone (soprattutto di quelle più anziane!) che con mille difficoltà abitano ancora a Venezia.
Cosa pensa della diffusione della poesia in rete?
Frequento poco la rete, nel senso che non cerco in lungo e in largo cosa scrivono gli altri e ancora meno ho la smania di pubblicare qualcosa di mio, anche se mi piace molto quando mi chiedono qualche testo o propongono una recensione a qualche mia raccolta. Mi rivolgo e seguo siti che ritengo seri e affidabili. Anche la poesia risente dei difetti più pesanti che la diffusione in rete porta con sé. Non occorre dire quali. Penso che possa essere uno strumento importante quando uno sa già cosa cercare, quando uno sa a quali voci rivolgersi, quali sono i poeti veri. Allora anche a me piace scovare o aspettare che un poeta che mi piace, o chi per lui, posti un inedito o venga intervistato. Belle e utili poi alcune iniziative come l’apertura del sito “I poeti sono vivi”, nato dalla sensibilità dei curatori di pordenonelegge e rivolto agli studenti delle superiori: ogni mattina una poesia di un poeta vivente scelta proprio per incontrare il gusto di un pubblico giovane. È un bel modo, diretto, di avvicinare gli studenti alla poesia. Quando infatti chiedo ai miei studenti di farmi il nome di un poeta vivente, la risposta purtroppo è quasi sempre il silenzio.
Quali sono i suoi autori di riferimento?
Più passano gli anni più sono gli autori a cui torno volentieri, anche giovani; ci sono molti autori tra i trenta e i quaranta, soprattutto di area veneta, che trovo bravissimi. Poi naturalmente ci sono quelli i cui libri sullo scaffale sono consumati. Kavafis e Dickinson su tutti. Poi Lamarque, Buffoni, Cavalli e Bertolani, Pedretti, Baldini e Zuccato tra i dialettali. Antonia Pozzi per il suo sguardo unico sulla natura, sulla montagna.
Cosa sta preparando attualmente?
L’anno scorso ho scritto molte poesie sul tema famigliare, allargando un po’ l’attenzione alla figura paterna e altre figure di contorno. Alcune mi sembrano forse impietose, vedrò che forma potrà prendere l’intera raccolta e spero di riuscire a selezionare con il giusto criterio i testi. Ho poi pronto un gruppo di poesie dedicato alla città di Atene, poesie a cui ho dato, quasi a tutte, la forma di frammento, a volte quindi presentano lacune, come spesso è successo alle liriche greche giunte sino a noi. Mi piacerebbe poterne fare una plaquette.
Può commentare la poesia inedita presentata?
La poesia (è la poesia di apertura dell’intera serie) appartiene proprio a questa raccolta di venti poesie dedicate ad Atene, città che mi piace molto, in cui si respira l’eco di quel suo splendore passato e nello stesso istante si toccano con mano cicatrici e ferite del suo presente.
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Te fa strada i cardelini
venindo zo dal Licabéto…
Atene che da in alto ti vedevi
bianca e sterminada
desso da novo se te mostra
grigia, e su i muri tuta scrita
oh, i mii amati marciapìe, róti
da la forsa granda de le raìse!
i treni sferaglianti
che passa – maravégia!
propio dentro l’agorà.
Ti fanno strada i cardellini /scendendo dal Licabetto… // Atene che dall’alto vedevi / bianca e sterminata / adesso di nuovo ti si mostra / grigia, e sui muri tutta scritta // oh, i miei amati marciapiedi, rotti / dalla forza grande delle radici! // i treni sferraglianti / che passano – meraviglia! / proprio dentro l’Agorà.
Andrea Longega