Every beat of my heart
Epica della montagna
Christoph Ransmayr, il massimo scrittore di lingua tedesca di oggi, conducendo al massimo il mistero e la metafisica della montagna dà inizio a una narrazione finora inesistente. E, in tempi bui come i nostri, la sua è una scalata che ci fa sperare
L’avventura della montagna è individuale e in quanto tale non può generare un’epica, quale quella navale che dalla Tempesta di Shakespeare porta a Melville, Stevenson, Conrad, o come quella che genera la città, la grande Roma di Catullo e Properzio, la Londra degli elisabettiani, la Parigi di Hugo, Baudelaire, Dumas. L’alpinista va da solo e quindi sente meno il bisogno di raccontare la propria esperienza, perché la brucia da solo. L’alpinista è più simile a un mistico, il navigatore è un narratore. La montagna è meta di un’esperienza individuale e solitaria. Si staglia allo sguardo come modificazione della terra che si eleva, si stratifica innalzandosi verso il cielo. Con cui confina, come immaginano i greci della religione antica dell’Olimpo. La montagna è sacra, e il sacro non è realtà da trattare con famigliarità.
Con il capolavoro La montagna volante Christoph Ransmayr, a mio parere il massimo scrittore di lingua tedesca di oggi, conduce al massimo il mistero e la generatività metafisica della montagna. Ciò che fino a lui mai era avvenuto. Non la contempla, la attraversa come Melville traversa il mare. Con Ransmayr la montagna vede nascere la sua epica. All’inizio del terzo millennio, sangue e orrori nel mondo. Ma uno scrittore austriaco scopre una scalata che ci fa sperare.
Ransmayr scrive un romanzo in versi, su una montagna. Io, nel 2000, pubblicavo un poema narrativo su un continente, Antartide. Un narratore scrive un romanzo in versi, un poeta un poema narrativo. Due opere su entità assolute, una montagna e un continente di ghiaccio. Poesia e narrazione tornano a fondersi, come agli albori dell’epica.
Sono morto
a 6840 metri sopra il livello del mare
il quattro maggio nell’anno del Cavallo.
Il luogo della mia morte
si trovava ai piedi di una guglia rocciosa corazzata di ghiaccio,
nel cui lato riparato dai venti avevo superato la notte.
La temperatura dell’aria al momento della mia morte
era di meno 30 gradi Celsius,
e io vedevo come l’umidità
dei miei ultimi respiri si cristallizzava
e si disperdeva sotto forma di fumo nel crepuscolo del mattino.
Non sentivo freddo. Non provavo dolore.
Il pulsare della ferita sulla mia mano sinistra
era stranamente intorpidito.
Da sud-est, attraverso gli abissi senza fondo ai miei piedi,
sfilavano ammassi di nubi.
La cresta che dal mio riparo
saliva sempre più su
fino alla piramide della vetta
si perdeva in convulsi pennacchi di ghiaccio,
ma al di sopra delle quote più alte il cielo
restava di un azzurro così cupo
che pensavo di potervi distinguere le costellazioni:
Arturo, il Serpente, lo Scorpione.
E le stelle non si spensero nemmeno
quando il sole sorse sopra i pennacchi di ghiaccio
e mi chiuse gli occhi,
ma apparvero come bianche scintille pulsanti
nel mio abbigliamento e ancora nel rosso
delle ciglia serrate.
Christoph Ransmayr
(Da La montagna volante, Feltrinelli, 2006. Traduzione di Claudio Groff)