Mario Di Calo
Visto al Vascello di Roma

Ancestrale Macbettu

Alessandro Serra ha trasportato la tragedia scozzese nel cuore della cultura e dell'antropologia sarda. Ne è nato Macbettu: uno spettacolo bellissimo che rivela uno Shakespeare antico e inedito

Sono tempi bui. Sono tempi di grandi incertezze. Tempi in cui quello che era consolidato viene messo in discussione, tempi in cui le autonomie, le etnie, le razze contano più di qualsiasi pace o stabilità. È tempo dunque di Macbeth. Ed ecco che spuntano fuori fra le più interessanti proposte teatrali ben tre allestimenti della famosa tragedia scozzese. Uno è andato in scena al Globe Theatre per la regia di Daniele Salvo; un altro è Buon giorno a te Macbeth di Davide Sacco all’interno di Progetto Lunga Vita al Teatro Marconi che aveva debuttato ai Quartieri dell’Arte lo scorso anno e infine l’attesissimo Macbettu di Alessandro Serra prodotto da Sardegna Teatro e Teatropersona, giunto a Roma al Teatro Vascello per i Teatri di Vetro di Roberta Nicolai. Bisogna subito dire fuori dai denti che è uno spettacolo bellissimo, poetico, crudele, duro e pur divertente! Un Macbettu interpretato da un valente gruppo di otto attori sardi. Bravissimi e trasformisti, ma trasformisti alla maniera del teatro greco, più che alla tradizione elisabettiana. Gli otto attori interpretano, a parte i ruoli femminili, spesso anche vari altri personaggi benché la loro riconoscibilità sia chiara.

Tutto merito della direzione sicura decisa intensa di Alessandro Serra. Mai come in questo caso il confine fra regia, luci, scrittura e interpretazione sembra non esserci o forse corre di pari passo simultaneamente. Tutte le innumerevoli geniali soluzioni della direzione sembrano essere connaturate agli interpreti.

Il sardo barbaricino diventa una lingua primordiale forse ancor precedente allo slang usato dal Bardo. Un’operazione azzardata che dà all’opera di Shakespeare una connotazione a-temporanea, senza epoca, senza spazio e senza luogo. Un’opera autoctona gettata lì da Serra come un pianeta che vaga in una galassia sconosciuta ma che vive di luce e respiro proprio. E la scelta di far interpretare le Tre Streghe (Tre Mistiche – ma anche multiple di Tre – Beghine risalenti al Medioevo) e la Lady a degli attori uomini anch’essa si allinea a questa dimensione avita, primitiva, primigenia, ci riporta direttamente ai tempi in cui la femminilità era considerata un’essenza divina cui gli uomini ambivano attraverso l’imitare, il simulare, l’afferrare. In questa folgorante intuizione vi è qualcosa che nega se stessa o che va oltre se stessa: nella scena finale della pazzia l’attore che interpreta Lady – un Fulvio Accogli eclettico – nudo e contratto su se stesso, quando si srotola per ascendere al cielo nasconde il proprio sesso, mortificandolo stretto fra le cosce. Un segno chiaro di negazione che cassa e annienta l’autorità che il maschio si è presa sulla femmina fin da quando è comparso sulla crosta terrestre.

Insomma uno spettacolo naturale e complicato allo stesso modo. Ferro, terra, sudore, sangue e pietra (e pane carasau). Una piccola torretta di pietra in proscenio sta a enumerare gli assassinii compiuti da Macbettu ma anche a evocare la teoria Zen che dice che le pietre sono nella mente di chi si crea un ostacolo. Solo liberandosi di quella pietra il protagonista potrà finalmente percepire la realtà che lo ha portato a tutto questo. Ma ancora è da menzionare la foresta che avanza – effetto sul quale spesso cadono molte messinscene – ovvero l’esercito di Malcom che giunge a liberare il Regno usurpato dal tiranno, è realizzata con una bellissima soluzione registica: delle enormi maschere di sughero, antiche e moderne dalle fogge curiose, con le quali gli attori creano una danza tribale e fatale che restituirà ordine alle cose.

Il Macbettu di Leonardo Capuano, cui fa da specchio un simmetrico Banquo – un perfetto Giovanni Carroni che è anche il traduttore e consulente in sardo – è un Lucignolo capriccioso e ostinato, che della malvagità non sa che farsene, è un male necessario il suo attraverso il quale arriva alla purificazione, alla pacificazione. Mentre l’impasto sonoro è un bel rimando fra Pinuccio Sciola e Marcellino Garau che insieme aggiungono un tassello in più verso la ricerca fonetica di scena; rumori/suoni/echi sono la prosecuzione o l’espansione di un gesto reale, come il battere ad una porta o semplicemente l’amplificazione di un grugnito.

Macbettu di Alessandro Serra sarà in scena di nuovo a Roma al Teatro Argentina dal 4 al 6 maggio se mi posso permettere un invito accorato agli spettatori romani: non ve lo perdete assolutamente, è uno spettacolo che riconcilia col teatro.

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