La mostra alle Scuderie del Quirinale
Quel che Picasso deve a Arlecchino
Il decennio creativo del Maestro spagnolo tra Cubismo e Neoclassicismo come non si era mai visto. Un percorso che in questa ricca esposizione romana, viene introdotto da un racconto di Cocteau sul “Balletto Parade” di cui si può ammirare lo spettacolare sipario. Tre opere emblematiche ci fanno da guida…
È una breve, folgorante scena da teatro, recitata prima che si alzi il sipario, a far da prologo alla mostra Pablo Picasso. Tra Cubismo e Neoclassicismo, che in una versione ampliata e riadattata per il pubblico romano approda, dopo il debutto a Napoli, alle Scuderie del Quirinale, dove terrà cartellone fino al 21 gennaio. E a offrire a noi visitatori complici dello spettacolo, e dunque autorizzati a liberare con ampio margine di licenza la nostra fantasia, la chiave per rileggere, tra e oltre righe, quel decennio di biografia del grande maestro spagnolo, tra il 1915 e il 1925, mai esplorato prima con tanta ricchezza di opere e documenti, su cui i due curatori Olivier Bergruen e Anunciata von Liechtestein hanno concentrato l’attenzione.
La voce del narratore è quella di Jean Cocteau. Racconta, citando e parafrasando una nota del suo diario, come riuscì a coinvolgere il suo amico Picasso nella straordinaria avventura del Balletto Parade, di cui stava mettendo a punto il copione per l’impresario russo Diaghilev e il coreografo Massine. Cocteau gli ha già anticipato l’idea e il suo desiderio di farlo partecipare alla messinscena, per imprimerle un ulteriore tocco di innovazione, ma lo ha trovato freddo, riluttante, immerso in una nube di depressione, comune a tanti protagonisti della Bohème e delle avanguardie della Parigi inizio secolo che lo scoppio della guerra ha sconfessato e disperso. L’ultimo tentativo per vincerne le resistenze è presentarsi nel suo studio indossando un costume da Arlecchino, la maschera della commedia dell’arte che il pittore più ama e più spesso ha rappresentato incantato dalla malinconia che emana, dalla semplicità con cui vive e interpreta la vita, dai colori che indossa e da quelli che a lui ha suggerito, il blu e il rosa, sfondi e sigilli dei primi capolavori che hanno traghettato la sua pittura verso il successo e oltre l’adolescenza. Un compagno di strada. E un alter ego. Per Picasso che gli apre la porta, quel Cocteau travestito a losanghe ha la forza profetica di un’agnizione, uno specchio in cui rivede se stesso e quel che dovrebbe tornare a essere. Lo stratagemma riesce. Ma la decisione di chiedere aiuto ad Arlecchino era già presa.
Ce lo spiegano all’alzar del sipario le opere che aprono la mostra. Manca purtroppo l’Arlecchino del 1915 che forse Picasso stava ultimando di dipingere quando Cocteau gli bussa alla porta, ma ce n’è un altro del 1918 che lo ricorda molto, la testa a lonsanga piantata su un corpo costruito con strati cubisti di collage simulati, contro uno sfondo di tasselli grigi e bianchi. E un altro del 1917 che lo ritrae di fronte a una donna con la collana utilizzando come tacche di una tappezzeria da design sminuzzata a colpi di forbici e colla tasselli in bianco e nero di elegante armonia. Accanto anche tre oli di uomini in varie pose di un periodo di poco precedente che sembrano prove generali dello stesso leit-motiv, studi a dire il vero non proprio riusciti, di via di fuga possibili alla rigidità della disciplina cubista.
La verità è che Picasso aveva già convocato in aiuto quello spirito folletto di Arlecchino, come complice e spalla di una incontenibile voglia d’evasione, incanalata come succede e succederà a molti altri colleghi d’avaguardia travolti dal trauma della grande guerra verso il ritorno all’ordine che contagia il ventennio successivo.
Con le Dames d’Avignon del 1907, che battezza ufficialmente l’inizio della rivoluzione cubista, e con i nove anni successivi consacrati alle rigorose ricerche sulla scomposizione geometrica dei volumi e la simultaneità dei punti di vista sviluppati insieme a Braque e Juan Gris, il genio anarchico di Picasso avverte di essere giunto a un punto morto. Di essersi costruito una prigione dorata, che gli ha dato il successo, ma da cui si sente soffocare. Via,via. Basta con quei quadri dai colori spenti e sabbiosi che chiudono in gabbia la soggettività, riducono a formula matematica e natura morta la difformità della vita, la gioia e il tormento d’esistere. Il cubismo e le sue soluzioni tornino a essere non più un orizzonte vincolante e obbligato, ma uno strumento più malleabile per catturare altre emozioni. Recuperando il piacere e la maestria del disegno che Picasso ha sempre considerato bagaglio essenziale di un vero pittore e praticato con eccezionale maestria, interrogando in presa diretta i capolavori dei maestri del passato e del presente, rubando i loro segreti. Insomma un rincongiungimento per nuove strade con la tradizione.
Che intreccio di esperienze in quel lungo soggiorno romano. C’è la scoperta di un versante del teatro che non aveva mai attraversato: la danza, che il copione di Cocteau e le coreografie di Massine avvicinano a un mondo che già conosce, quello del circo. C’è l’incontro con i musicisti e la musica. A Roma Eric Satie, poi a Parigi, dove proseguirà la sua collaborazione con il balletto, Igor Strawinsky, immortalato in uno dei ritratti più belli di questa rassegna: ritmi, dissonanze, esperimenti che parlano la voce di un Novecento controcorrente. C’è un nuovo amore che durerà poco ma gli riaccende dentro la vita, la ballerina russa Olga Colchova, che sposerà e gli darà anche un figlio: quel bimbo battezzato con il suo nome a cui Picasso dedica due splendidi ritratti, chicche prelibate di questa mostra, mettendolo in posa negli abiti di Arlecchino e Pierrot, la faccia spaurita e malinconica di un altro se stesso da piccolo.
E poi ci sono i debiti contratti con la pittura e le tonalità cromatiche degli affreschi pompeiani, con il mistero e le enigmatiche posture delle scultura dei sarcofaghi etruschi. Critici e biografi vi fanno riferimento per spiegare l’ispirazione di un campionario di fascinosi quadri qui esposti a testimoniare il rientro di Picasso nei canoni dell’arte di figura, la conversione alla solennità monumentale del classicismo, e l’abbandono delle formule accavallate e spigolose del cubismo: nudi maschili e femminili che sembrano scolpiti in blocchi di terra brumosa, teste di donna dai contorni stilizzati che ti spiano come sirene da un tempo remoto e immutabile, sullo sfondo un cielo di un celeste quasi immobile nella sua densità, due uomini che maneggiano e si passano come una reliquia un flauto di Pan. Tra tutti ho scelto e suggerisco tre opere più eccentriche. E a loro modo esemplari della difficoltà di imbrigliare dentro schemi ed etichette il talento onnivoro e mercuriale di Picasso. La prima è Studi, una composizione a riquadri del 1920, otto diverse finestre che consentono di affacciarsi sui due universi iconografici che dominano la stagione creativa presa in esame: tessere di elementi geometrici variamente composti e accostati alla maniera cubista, alternate a innesti di figurazione arcaizzante, un volto, due mani dalle dita massicce e pesanti, una coppia di amanti sul bagnasciuga. A sorprendere è l’armonia che raccorda questi scarti apparenti di stile, la libertà che l’autore concede e si concede di passare da un impianto formale all’altro.
La seconda è una natura morta davanti aduna finestra del 1919: un assemblaggio di elementi e cortine bianche increspate, messe in posa come un ospite alieno davanti a uno spicchio di cielo e di mare in cornice, che mi riporta in mente lo stupore spaesante di certe inquadrature di paesaggi sul cavalletto di Magritte. Tra le alternative d’evasione che Picasso imbocca, il surrealismo diverrà una costante sempre più ricorrente.
La terza è una tavola a olio piccolissima. Ritrae due donne in corsa su un arenile di dune spigolose, dietro, una linea di mare quasi fusa con un cielo di nuvole bianche. Teste di capelli increspati, corpi, braccia e gambe possenti da statue protese e incurvate a smentire ogni realtà anatomica per raccontare ebrezza e felicità. La genesi di Guernica si intravede già qui. E non sembra parlare la lingua di un classicismo reinventato, piuttosto l’enfasi e il senso del movimento fuori schema del manierismo e del barocco: non se ne trova traccia nei diari di Picasso ma sono modelli che l’artista si porta appresso dal suo paese e che deve aver ritrovato e assimilato proprio qui a Roma. Magari visitando, e rimanendone abbagliato, il trionfo di forme, corpi e colori che ti piove addosso dalla volta del Salone d’onore di Palazzo Barberini, affrescata da Pietro da Cortona. Qui la mostra delle Scuderie ha deciso di ambientare il suo capitolo più spettacolare, offrendo in vista per la prima volta a Roma, dove pure è custodito, il gigantesco sipario dipinto da Picasso per il balletto Parade. Un telone alto dieci metri e lungo diciassette che invade l’intera parete e sembra quasi congiungere le figure della scenografia, dal cavallo alato all’immancabile variopinto Arlecchino, con quelle che popolano l’allegoria barocca. Un inno alla libertà visionaria dell’arte che scavalca e stringe in un abbraccio inedito e festoso quattrocento e più anni di Storia.