La voce del poeta: Gianni Zampi
Paesaggio plausibile
È come emerso il dettato poetico di “Qui è sempre inverno”, l’unica raccolta dell’autore toscano pubblicata nel 2013. Emerso da posti remoti, dai ripensamenti, dalle correzioni che nulla hanno tolto all’immediatezza, né al pudore e alla compostezza. E tra poco, in un nuovo libro, il lavoro degli ultimi anni…
«Non infierire con le parole» si legge in Qui è sempre inverno (80 pagine, 12 euro), l’unica raccolta poetica pubblicata da Gianni Zampi per Italic nel 2013. E tale assunto sembra caratterizzare la pronuncia poetica dell’autore toscano, trincerata in una sorta di pudore e compostezza che si riverbera nelle pagine di tutto il libro. I luoghi e le occasioni dalle quali scaturiscono i suoi versi sono i più variegati, configurandosi con l’immediatezza delle “Cartoline felicità” che è il titolo di una lirica presente nella raccolta. E non è un caso che il tenore della stessa sia dominato da una tensione prosastica, di eco sereniana, che contraddistingue il dettato di Zampi: «Ci siamo avvicinati all’inverno / guardando il cielo inveire».
Come mai il suo libro di esordio è uscito solo nel 2013?
Forse non avevo fatto bene i conti con il tempo. Non mi ero accorto che passava. Leggevo, scrivevo, correggevo, estenuavo… e poi riponevo in posti remoti, dai quali ogni tanto emergeva qualcosa. Ma più spesso spariva. Devo il cambio di passo a Alessandro Ceni e a Stefano Simoncelli, amici carissimi e poeti da sempre ammirati. Si sono occupati di me, e non solo per trovarmi un editore, con una generosità che non so ancora come ricambiare.
Può parlarci della sua raccolta Qui è sempre inverno?
Se scrivere poesie, o almeno tentare di scrivere poesie, è questione che comporta gran lavorio e dispendio di energie al limite della sopportazione, ordinarle in un libro dà il capogiro. È come disegnare la mappa di un territorio che non si sa nemmeno se abbia diritto a esistere. Decisivo, comunque, in questa fase, è stato l’aiuto di Patrizia Lischi, studiosa di arte settecentesca e dotata di molta pazienza. Ha coperto con carta da pacchi un’intera parete della nostra abitazione e poi, per mesi, usando spilli da sarta, vi ha attaccato tutto quanto riusciva a recuperare. A parte le cose, poche, già stampate, sono tornate in essere scritture più o meno dimenticate. Alla fine davanti ai nostri occhi si è delineato un paesaggio plausibile: quello, appunto, di Qui è sempre inverno.
Quando uscirà la sua prossima raccolta?
Dovrebbe essere questione di pochi mesi. Il testo del nuovo libro è già stato consegnato all’editore. La parte centrale contiene poesie del precedente, ma le zone di confine riguardano il lavoro degli ultimi quattro anni.
Può ricordarci l’esperienza della rivista “Titus”?
Nel mese di maggio 1992 usciva l’ultimo numero di “Titus”; in coda alla rivista avevo redatto, a nome collettivo, una specie di breve verbale dello stato emotivo del momento, che terminava con queste parole: «E allora che ognuno abbracci la propria scrittura e si metta a fuggire, velocemente». Ed è proprio così che è andata, da allora in poi la redazione si è sparpagliata e non c’è stato quasi più niente da condividere. L’unico dell’ex redazione che ho continuato a frequentare è stato, ed è, Francesco Piccioni. Abitando lui a Roma e io ad Arezzo, ci incontriamo a metà strada, a Orvieto. Francesco ha pubblicato due intensi e complessi romanzi con Pequod, la stessa casa editrice di Qui è sempre inverno. Questa continuità non è probabilmente un caso, infatti l’idea di “Titus”, il cui primo numero uscì nel 1984, a maggio, era venuta in mente a noi due. Sentivamo forte la necessità di leggere, di scrivere, di parlare di poesia. Allora erano attivi grandi poeti e nuove figure importanti si stavano delineando, altre, invece, e non necessariamente di ultima generazione, stentavano a farsi ascoltare. L’intento era quello di offrire loro, soprattutto ai poco ascoltati, ma per noi significativi, un habitat adeguato: la carta quindi doveva essere di buona qualità. A scorrere gli indici dei quaderni di “Titus”, emerge, mi sembra, un punto di vista interessante sulla poesia di quegli anni. Ecco alcuni nomi: Piero Bigongiari, David Bottoms, Tiziano Broggiato, Nadia Campana, Bartolo Cattafi, Alessandro Ceni, Milo de Angelis, Luciano Erba, Fabrizio Barbagli, Mauro Pisini, Pier Massimo Forni, Edmond Jabès, Sara Kirsh, Michael Krüger, Franco Loi che introduce Giulio Trasanna, Felice Fischietti, Filippo Nibbi, Valerio Magrelli, Francis Ponge, Roberto Roversi, Lucio Saffaro, Giovanna Sicari, Stefano Simoncelli, Giampiero Neri, Manlio Sgalambro…
Quali sono i suoi autori classici di riferimento?
Ho sempre letto molto, anche di filosofia, e tutto quello che ho letto con passione, volta a volta, mi ha, come dire, giustificato nella vita. Quindi, una vasta piattaforma in cui si fronteggiano alla pari classici “epocali” e “classici personali”. Sorvolo sui poeti, non basterebbe una lista. Per quanto riguarda la prosa, gli ultimi autori che mi hanno davvero impressionato sono Thomas Bernhard e W. G. Sebald. Leggo sempre molto volentieri, per esempio, gli scritti di Giorgio Agamben.
Cosa pensa della diffusione della poesia in rete?
Visto che la rete, come accade in questo momento, mi sta resuscitando, direi che va bene.
Può descriverci la poesia inedita presentata?
Si tratta della poesia che chiude il nuovo libro, I presupposti del disabitare. Per ora non riesco a aggiungere altro: è un’esperienza nuova anche per me.
***
Entrata nella casa dell’amico
Sarà allora un procedere di spalle
un diagramma contro il punto di fuga
quello che vedi. Non ti stupire.
Di là dai tigli barcollano insalvabili
corpi vespertini. Sèntine il passo
lento terroso di memoria vegetale
in avvicinamento e come essi
arrivano a casa – la tua – e si
gettano di schianto su sedili
a caso. Sono secondo ragione
natura esposta dell’affanno – salto.
Gianni Zampi