“La vera storia del bandito Giuliano”
Il bandito e le fake
La ripubblicazione dell'inchiesta di Tommaso Besozzi, che nel 1950 smascherò le bugie di Stato su quella storia, fa riflettere soprattutto sulla debolezza del giornalismo di oggi
La mattina del 5 luglio 1950 il Radio Giornale comunicò con enfasi agli italiani che il famoso bandito Salvatore Giuliano, la primula rossa del Movimento autonomista siciliano, il Robin Hood mafioso, era stato ucciso in un conflitto a fuoco dai carabinieri del Comando Forze Repressione Banditismo (Cfrb) diretto dal colonnello Ugo Luca. Il Giornale di Sicilia titolò a sette colonne: “Stanotte alle tre e trenta a Castelvetrano il bandito Giuliano ucciso in un conflitto con il Cfrb». Gli fece eco La Sicilia di Catania: «Ucciso Salvatore Giuliano dalla squadriglia del Cfrb. Accerchiato, ha invano tentato di aprirsi un varco, ma nel conflitto a fuoco, protrattosi a lungo, ha trovato la morte…». Seguirono a breve le edizioni straordinarie del Corriere della Sera, de l’Unità, dell’Avanti!, del Popolo, della Stampa.
Tutti riportarono la versione ufficiale fornita da Perenze (il capitano dei carabinieri incaricato dell’operazione militare) e cioè che all’alba a Castelvetrano in provincia di Trapani, il fuorilegge era stato intercettato ed eliminato. Tutti confermarono che il famoso brigante che piaceva alle donne, a molti mafiosi (ma non a tutti), ai giornalisti dei rotocalchi e agli autonomisti, era stato abbattuto con una raffica di mitra.
Sospetti, domande e perplessità iniziarono a circolare quasi subito (tra gli altri il pezzo di Maurizio Ferrara su l’Unità), ma un solo giornalista che praticava la diffidenza e respirava il dubbio prese un treno da Venezia a Roma e da qui un aereo per Palermo: Tommaso Besozzi. Allora lavorava per L’Europeo diretto da Arrigo Benedetti. Era un cronista di razza. Un segugio a-ideologico. Senza pregiudizi, si mise ad indagare. Interrogò gli abitanti, raccolse testimonianze, confrontò fotografie e incrociò i dati. Alla fine uscì con un articolo il cui titolo è tuttora un monumento, anzi il monumento per eccellenza, al giornalismo: Di sicuro c’è solo che è morto. Nel suo pezzo, Besozzi sosteneva che la versione ufficiale faceva acqua da tutte le parti, avanzando l’idea (rivelatasi vera) che Giuliano fosse stato ammazzato nel sonno da un suo compare traditore (che si saprà poi essere stato il cugino Salvatore Pisciotta, avvelenato quattro anni dopo all’Ucciardone con un caffè, il primo di tanti futuri e famosi caffè al cianuro).
A settant’anni di distanza, di quei fatti rimane poco o nulla: molti bei saggi, un film di successo, qualche brutta fiction e la scoperta politica che Salvatore Giuliano non era quel genio del ribellismo che si immaginava, ma un “picciotto” ignorante, arrogante e senza cultura che pensava di cavalcare – ma ne fu cavalcato – la tigre del successo e della fama, prestandosi ad ogni forma di ricatto e di porcheria. Tra tutte la strage di Portella della Ginestra. Ora le Edizioni Milieu hanno avuto l’idea di ripubblicare il libro nato da quell’inchiesta, scritto dallo stesso Besozzi, uscito nel ’59 da Vitagliano, esso stesso simbolo dei segreti che ancora si celano dietro a questa lontana vicenda (Tommaso Besozzi, La vera storia del bandito Giuliano, 206 pagine, 15,90 Euro).
Il curatore del volume è Enrico Mannucci, giornalista e biografo del Besozzi (I Giornali non sono scarpe, Dalai Editore), che – lavorando sul profilo di quel cronista “da manuale”, morto suicida nel ’64 – ha faticosamente recuperato dopo l’unica copia ritrovata. Sì, perché l’unica copia ufficiale segnalata, quella che, come ogni libro, si dovrebbe trovare alla Biblioteca Nazionale di Firenze, risulta misteriosamente rubata.
Grazie a una copia prestatagli dall’amico Mario Fossati, Mannucci ne ha dunque curato una riedizione, riportando a galla non tanto la cronaca di una vicenda che di per sé è già consegnata agli storici, quanto l’attualità e dunque la modernità di quel fare giornalismo. La vera storia del bandito Giuliano di Tommaso Besozzi è dunque, e senza dubbio alcuno, la prima inchiesta del dopoguerra italiano. L’Italia (o italietta) post bellica di allora era fortemente ideologizzata. Non assopita, perché la riscoperta della libertà eccitava gli animi di giornalisti, scrittori ed editori, ma faticava ad imporsi la curiosità per la verità vera. In questo senso il banditismo era un argomento delicato. Sulla sua repressione il governo aveva speso credibilità. Le opposizioni lo accusavano di connivenza. Una verità scomoda poteva mettere a rischio l’unità nazionale.
L’indagine di Besozzi fu un coltello rovente nel burro della retorica politica. Dimostrò senza remore che le bugie di Stato… esistevano; erano anzi una pratica diffusa. Mise in luce che lo Stato democratico, nato dalla Resistenza, si rifaceva ancora alle liturgie fasciste delle verità costruite a tavolino.
C’è una frase interessante di Michele Tito, il quale conobbe bene Pannunzio e Benedetti. Dice della pubblicazione dell’inchiesta di Besozzi: «Fu un atto di ardimento straordinario… un atto che sarebbe stato ignobile per gran parte dei giornalisti di allora, per Missiroli, tanto per fare un nome. Anche Benedetti ebbe dei dubbi [se pubblicarla, ndr] si trattava di scoprire la nudità dello Stato. E loro, il gruppo de L’Europeo, erano i democratici più avanzati in Italia e dello Stato avevano un senso fortissimo».
L’elemento che rende questo testo attuale è la sua modernità. L’inchiesta inaugurò il ciclo delle future grandi indagini giornalistiche contro la corruzione e contro le verità di comodo: vengono in mente lo scandalo Lockheed in cui finì in galera per tangenti l’allora ministro socialdemocratico Mario Tanassi e furono costretti alle dimissioni l’onorevole Gui e addirittura il Presidente della Repubblica Giovanni Leone, oppure lo splendido lavoro fatto da Andrea Purgatori del Corriere della Sera che contestò la versione ufficiale sulla caduta del DC-9 dell’Itavia con 81 passeggeri nel cielo di Ustica nel maggio del 1980 fino a far riaprire le indagini giudiziarie nonostante i depistaggi.
La domanda oggetto di mille e mille convegni, dibattiti televisivi e non, tavole rotonde e via elencando è: si può oggi rifare un’inchiesta del genere? Si può immaginare un’indagine terza (e non come quella di Tangentopoli che fu condotta dalle Procure) puntuale, arguta, razionale come quella? Si può immaginare una penna alla Simenon capace di incastrare dati ed elementi e smascherare corrotti e collusi? Risposta difficile. Il mondo non è più quello di Besozzi. Il potere è meno sprovveduto di un tempo. Sa nascondere e nascondersi. Sa celare e depistare. Per fare un esempio, non consentirebbe ad un pasticcione come il colonnello Ugo Luca dei Carabinieri del Cfrb di rivestire in fretta e furia – e dunque male – il corpo di Salvatore Giuliano non curandosi dei dettagli, portando via il cadavere del bandito dal luogo dell’assassinio, commettendo una serie tale e incredibile di errori che avrebbero prodotto dubbi anche in Paperino Detective.
Ma, pur salvaguardando la memoria e il valore di Besozzi (lui e solo lui seppe leggere per primo quelle incongruenze), è innegabile che indagare oggi sia complicato e disagevole. Non solo il denaro e dunque la corruzione viaggiano alla velocità della luce su Internet; non solo il sistema, molto ben oliato, sa difendersi dietro a legislazioni di comodo e a un garantismo peloso; ma, soprattutto, le nuove tecnologie (facebook, twitter e via elencando) sembrano concepite più per fare annegare la/le verità nel grande mare della confusione dove le fake news navigano con l’impudenza dei pirati, affondano ogni opinione, mescolano le cose, confondono le idee e alla fine annullano nell’impotenza qualsiasi grido urlato in nome della giustizia.
Non a caso oggi siamo nell’era della post verità, che non è la verità come ben sappiamo, ma una specifica categoria del falso, che però, nella confusione dei tempi, ha assunto un ruolo politicamente rispettabile; per cui dire che una cosa è vera, equivale legittimamente ad affermare il suo contrario. Per dirla alla Flaiano, nel mondo leggero di oggi la situazione è grave ma non seria. Che fare dunque? Gli strumenti che cittadini e lettori (o ascoltatori) possiedono sono pochi e purtroppo assai spuntati. Probabilmente ci si dovrebbe aggrappare come naufraghi alla solita corda della cultura, quasi questa avesse funzioni salvifiche nel lento naufragio che si sta vivendo. Ma cultura e conoscenza, da sole, contano poco. Potranno tornare ad essere un valore solo se riusciranno a risalire la china della credibilità. Probabilmente riscoprendo il valore del lavoro sul campo. Del metterci la faccia. Del ritrovare l’orgoglio del cittadino informato e del giornalista informatore. Forse, in un ipotetico domani, una corretta informazione sarà un segno di distinzione, come saper leggere e scrivere, avere buone letture, saper distinguere una notizia da un palo della luce. Forse nasceranno gruppi editoriali che forniranno i loro articoli di un pedigree certificato, come si fa adesso con le pere biologiche. O forse nasceranno scuole per giornalisti che invece di insegnargli come diventare professionisti nel più breve tempo possibile, gli insegneranno come si fanno le inchieste, come si coltiva il dubbio, come sia essenziale in questo mestiere guardare il potere sempre e solo col cannocchiale.
Nell’attesa… non resta che guardarsi intorno. Il terremoto dell’informazione ha creato solo macerie: poche inchieste spesso ripetitive, notizie basate sui social media, pagine e pagine di commento su un tizio assolutamente sconosciuto che ha postato il suo mal di pancia personale su facebook e s’è ritrovato, per dirla alla Warhol, col suo quarto d’ora di celebrità. Il ventre molle del Paese (ma non è un fenomeno solo italiano) è avvilito da scorribande di fabbricatori di falsi (partiti politici compresi) e nessuno, ripeto nessuno, che abbia una idea del che fare. Consoliamoci dunque leggendo questo bellissimo libro a ricordarci che il grande giornalismo non è una favola. C’è stato e ha lottato (per poco) insieme a noi.
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