Ilaria Palomba
A proposito di "Slittamenti"

Un tempo in poesia

Nella poesia di Gabriele Galloni la parola arriva più tardi dell'emozione diretta, che si ritrova a essere un'istantanea dove il mondo e il tempo appaiono totalmente dentro l'io dell'attimo

Slittamenti di Gabriele Galloni (Augh, 2017, pp. 58, euro 9,90) è un potente esordio poetico. «Galloni è un visionario che va avanti tornando indietro» scrive Antonio Veneziani nella prefazione. Gli slittamenti sono gli interstizi in cui accade l’irreparabile. Tempo che si trasforma in spazio e lascia a ognuno i suoi deserti. Muri che illuminano da sé una morte vissuta con necessaria tolleranza. Sesso che uccide e lo fa con ironia, bisessualità e pansessualità, poesia della distanza dell’istante, fotografia di un momento che si dissolve.

Recupera la tradizione, Galloni, ma la supera con una modernità che ironizza sulla morte e sulle cose pesanti del presente. Veneziani scrive ancora di lui: «Non fa mistero del suo procedere poetico, dove i classici letti e amati, passano nella pagina come echi, ma non manca neppure buona parte della poesia anni settanta ottanta, cito alla rinfusa: Dario Bellezza, Gino Scartaghiande, Attilio Lolini, Stefano Moretti, Gilberto Sacerdoti. Se Renzo Paris riprendesse il suo pregnante e indimenticabile Io che brucia (antologia della scuola romana di poesia) e inserisse qualche nuovo autore, potrebbe sicuramente trovare un posto a questo poeta che racconta il mondo e l’io, con l’impertinente distacco di un ventenne».

Una scrittura metafisica in cui si è però pellegrini di corpo in corpo e ogni volta nuovi, dove il corso del tempo viene sezionato in luoghi. La parola arriva più tardi dell’emozione diretta, che si ritrova a essere un’istantanea dove il mondo e il tempo appaiono totalmente dentro l’io dell’attimo. Il viaggio di un sognatore solitario, che scopre il corso del mondo in visioni e dietro la sala d’attesa trova il mare. «Nuova fermata: il mare / dietro la sala / d’attesa. Quando capita // vediamoci: sarò / spesso da quelle parti. // Non altro queste / fiandre pontine».

Si ritrova tutto un misticismo misterico negli scheletri di cemento delle periferie romane. E poi Galloni dedica liriche a Borges, Wittgestein, Jung, o meglio, li reinterpreta: dove gli specchi non riportano nulla indietro ma moltiplicano, una mosca nella bottiglia diventa il tempo ultimo, e si è partoriti dalle cose e ritrovati nel fiume eterno dell’esistenza. Riecheggia Rimbaud, e tutta la tradizione della poesia maudit ma sempre con questo senso di distacco e sommessa ironia.

Scrive ancora Veneziani nella prefazione: «Con versi leggeri, aerei, ma sempre incisivi, come un bisturi impugnato con mano ferma, Gabriele Galloni scava nella storia dell’uomo, provando a giungere fino alle radici. Prima c’è il sangue, l’acqua, il tempo, poi la Parola, ma solo perché è la Parola che tutto contiene e tutto origina. Dalla Parola arriva il futuro che costeggia il passato; nella Parola si ritrova l’origine del discorso e dunque anche della vita».

Dell’adolescenza, in un bagno eterno sulle spiagge di Focene, resta il bianco. E così resta il bianco sottile di questo slittamento della parola e del concetto, che si fa carne ma solo come passaggio, tensione verso l’oltre. «I ragazzi sulla spiaggia di Focene / insieme incontro all’onda sonnolenta / che ritornando bagna loro il fianco / adolescente. È questa vita, lenta, // la sua illusione qui della durata / eterna. Quando ciò che resta è il bianco / della parete a fine di giornata, / il mese placido, tempo che viene, // i ragazzi alla spiaggia di Focene».

L’ultima lirica ha la potenza e la maturità dell’aforisma: «Dei nostri giorni calcolammo il peso, / la grazia successiva ed eventuale».

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Accanto al titolo: Jean Fautrier, Tête d’Otage N.1, 1943

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