A proposito del “Giardino dei cosacchi”
L’amico di Dostoevskij
Jan Bokken ha ricostruito la biografia di un'amicizia: quella tra il giovane barone russo Alexander von Wrangel e Fedor Dostoevskij. Un rapporto vissuto quasi interamente in Siberia, negli anni dell'esilio dello scrittore
Il nuovo libro di Jan Bokken, Il giardino dei cosacchi (Iperborea 2016), è una via di mezzo fra il saggio biografico e il romanzo. Anche Anime baltiche era un’opera di difficile classificazione. Del resto è ormai un carattere della narrativa contemporanea la commistione di generi. Invero, se non si sapesse tutto sui protagonisti reali, se non si conoscessero così bene, il libro si potrebbe leggere senz’altro come un romanzo, interessante ed avvincente. Ma comunque il fatto di sapere chi in realtà siano i protagonisti dà un valore aggiunto all’opera.
Colui che narra la storia, il personaggio che dice “io”, è Alexander von Wrangel, un giovane barone russo di origini baltiche la cui vita ha avuto vari momenti di incontro e comunione di esperienze con quello che è il vero protagonista della storia, Fedor Dostoevskij ed, ovviamente, è su questo che maggiormente si appunta il nostro interesse di lettori. Da bambino, Alexander ebbe un primo casuale incontro col romanziere russo, anch’egli ancora giovane, quando questi venne condannato a morte dallo zar e fu portato insieme ad altri compagni davanti al plotone di esecuzione e solo all’ultimo minuto arrivò il contrordine.
Sappiamo dallo stesso Alexander quello che provò Dostoevskij mentre aspettava la morte così come lui stesso ebbe a raccontarglielo: «Non può essere vero. Non può essere. Non può essere che io, in mezzo a tutte quelle migliaia che sono vivi, tra cinque o sei minuti non esisterò più». A questo primo incontro segue la deportazione del grande romanziere in Siberia, dove il giovane Alexander viene nominato procuratore qualche tempo dopo: due ruoli sociali opposti, ma due anime affini che presto si ritrovano e tra cui nasce una confidenza che li aiuterà entrambi a trascorrere gli anni in un luogo così desolato.
Ciò che più colpisce è conoscere gli stati d’animo, la personalità di Dostoevskij attraverso i racconti e i ricordi dell’amico. Si capisce meglio quando lo scrittore, così spesso nei suoi romanzi, parla della prigionia e della delinquenza, cose con cui è stato a contatto per otto lunghi anni. È il suo modo di scrivere: «Aveva bisogno di un punto di partenza vissuto per poi variarlo all’infinito». Colui che ha ritratto con tanta veridicità i peggiori crimini dell’animo umano è invece, a detta di Alexander, «un santo». La sua bontà lo spinge sempre a darsi la colpa per giustificare gli altri: «In ogni caso era uno che cercava il torto in se stesso piuttosto che in un’autorità che tanto gli aveva avvelenato la vita».
Finché è in prigionia, non si dà mai per vinto, aspettando la grazia dal nuovo zar. «Non faceva che ripetersi che gli sarebbe potuta andare molto peggio e che non poteva lamentarsi… L’autocommiserazione è il modo più veloce per crollare mentalmente e fisicamente… è la variante lenta del suicidio». Una volta fuori però è sempre e solo lui al centro dei suoi pensieri. A proposito Alexander ricorda, non senza un sorriso, il passo di una lettera in cui piange la morte di un caro amico: «Aveva l’emicrania, era stanco e per giunta, porca miseria, era morto Isaev. Per Fedor le sciagure iniziavano sempre da se stesso».
Tutto il libro va avanti così, con piccole gemme sul carattere, sui pensieri, sui sentimenti di Dostoevskij, sul suo amore per quella che poi sarebbe diventata sua moglie, sui suoi seri problemi economici, dovuti in buona parte ai suoi debiti di gioco: «Sempre con debiti impossibili da estinguere. Sempre con il timore di finire in carcere per quei debiti. Non conosco pace, né giorno né notte, di giorno cammino avanti e indietro per le redazioni e di notte scrivo qualcosa. Su ordinazione. Con i minuti contati».
Due osservazioni vengono spontanee dopo la lettura del libro. La prima riguarda la lentezza della trasmissione dei messaggi in quegli anni in Siberia. Sembra scontato, ma quando si legge per la prima volta il racconto di Kafka Il messaggio dell’imperatore non ci si rende conto che quella meravigliosa metafora si basa su una situazione reale. Alexander spiega: «La notizia della morte di Nicola I ci raggiunse con quasi un mese di ritardo. All’inizio di marzo un aiutante di campo aveva cavalcato dieci giorni da Pietroburgo a Omsk per riferire l’accaduto. Da Omsk a Semipalatinsk ci volevano ancora diversi giorni. Il 12 marzo ci arrivò infine l’annuncio che l’imperatore era deceduto improvvisamente il 18 febbraio. In circostanze misteriose, ma questo venimmo a saperlo solo dopo un anno intero».
La seconda riguarda un conte vicino allo zar che cerca di ottenere clemenza per Dostoevskij e dice sorridendo «Mi sembrava meglio invocare clemenza per l’ex ufficiale del genio che per lo scrittore». Giustamente Alexander aggiunge: «Anche dopo il suo esilio lo scrittore metteva soggezione; lo scrittore aveva carattere e, come aveva scritto più volte Dostoevskij, nel XIX secolo un individuo ha il dovere morale nei confronti della società di esser un tipo senza carattere». Ma vien fatto di chiedersi: «Solo nel XIX secolo?».