Cartolina da Chicago
L’altro Sud d’America
Il razzismo è un tema - purtroppo - sempre attuale negli Usa (come dimostra anche il successo del nuovo film di Kathryn Bigelow). Ma nessuno coglie il paradosso di un paese che ha un Sud politico e uno geografico
Da poche settimane è uscito in alcune sale Detroit, il nuovo film di Kathryn Bigelow che marca il cinquantesimo anniversario della rivolta che nell’estate del 1967 scosse violentemente la metropoli del Michigan, famosa per essere la capitale dell’automobile. Il film, lungo più di due ore, è molto difficile da guardare non solo per sua handheld camera, che di per sé mette agitazione, ma per i fatti che racconta. Parla, infatti, della brutalità della polizia ai danni della comunità nera. I fatti di quell’estate lontana accaddero a pochi anni di distanza dalla legge sui diritti civili, il famoso Civil Right Act varato dal presidente Lyndon Johnson nel 1964. In particolare, il film si sofferma sulla violenza che fu perpetrata per diverse ore ai danni di alcuni giovani neri e di due ragazze bianche nel Motel Algiers di Detroit. Il comportamento della polizia nei confronti del gruppo, costretto per diverse ore a stare in piedi con la faccia al muro e le mani in alto, è stato ricostruito sulla base delle testimonianze di alcuni di coloro che subirono questa tortura. La maggior parte ne uscì talmente provata da trovare difficoltà a riadattarsi a una vita normale e tre di essi, poco più che ragazzi, furono uccisi a sangue freddo senza nessuna ragione plausibile, esclusa quella apparente di trovare la pistola che, a detta della polizia, aveva sparato da una delle finestre del piccolo motel. In realtà la cosiddetta arma in questione era una pistola giocattolo che emetteva solo rumore e non sparava proiettili e che fu usata soltanto per impaurire le forze dell’ordine, ma che liberò i più bassi istinti razzisti, semplicemente sopiti, ma mai eliminati, del corpo di polizia della Motor City e in generale dal paese.
Quella sera in città fu chiamata, per ristabilire l’ordine, dall’allora governatore George W. Romney (il padre di Mitt Romney) anche la guardia nazionale che uccise alcuni cittadini neri innocenti tra cui, per errore, una bambina di quattro anni che si trovava dietro alle tende di una finestra da cui si credette provenissero gli spari di un cecchino. I disordini seminarono dietro di loro una scia di sangue impressionante che lasciò sul terreno 43 morti, di cui 33 neri e 10 bianchi, 1189 feriti, 7231 arrestati, la distruzione di 2500 negozi, 388 famiglie senza casa, 412 edifici dati alle fiamme o danneggiati in modo tale che poterono solo essere demoliti, per un totale di danni tra i 40 e i 45 milioni di dollari.
In un’intervista rilasciata alla rivista Variety il 1 agosto 2017, pochi giorni prima dell’uscita del film nelle sale, Kathryn Bigelow citando Martin Luther King, ha affermato che in generale «le rivolte sono la lingua di coloro che non sono in generale ascoltati». In questo caso la regista ha ridato loro una voce molto attuale alla luce di ciò che sta accadendo in questi ultimi tempi. «Con i fatti che si svolgono oggi –afferma la regista – questa storia aveva bisogno di vedere la luce del giorno. La mia speranza è che da questo film venga fuori un dialogo che possa cominciare a rendere umana una situazione che spesso viene percepita come molto astratta».
Intanto i neri, come cinquant’anni fa, continuano a morire nelle strade delle metropoli americane, siano esse Detroit o Chicago (come ha mostrato recentemente il bellissimo film di Spike Lee, Chirac). Oggi, però, ai pericoli di quegli anni lontani si aggiungono quelli delle gang che, nell’emarginazione dei projects, uccidono altri neri, elemento che in tempi recenti, ha fatto parlare di genocidio entro la comunità proprio per la facilità con cui si possono ottenere le armi con cui i neri si sterminano gli uni con gli altri. Ma la polizia non ha cessato di essere un pericolo per loro, quella stessa polizia il cui motto è “to serve and protect” e che dovrebbe per definizione proteggere i cittadini , tutti i cittadini indipendentemente dal colore della loro pelle.
In realtà, le cose non stanno affatto così. E il problema, si sa, non riguarda solo le forze dell’ordine, ma molte istituzioni e molti cittadini. Viene da lontano e sembra duro a morire. I recenti fatti di Charlottesville e le dichiarazioni di Trump nei confronti dei neonazisti, del Ku Klux Klan e dei suprematisti bianchi ne sono la dimostrazione più evidente. Giace nella contraddizione che si trova nel DNA di questo paese: la più evoluta democrazia nel mondo è emersa dalla schiavitù, ha prosperato sulla segregazione, e trasuda ancora un razzismo che non riesce a scrollarsi di dosso. Perfino la sua geografia ne è affetta. Esiste, infatti, un paradosso che non viene mai considerato dai cittadini di questo paese, perché non se ne rendono neanche conto. Quando viene fatto notare loro, ne rimangono sorpresi come se improvvisamente cogliessero il paradosso che ciò significa. Questo risiede proprio nel fatto che il paese meno ideologico e meno politicizzato del mondo ha una geografia fisica che viene eclissata da quella politica, cosa che ha a che fare con le sue origini e la sua storia. Cosi quando si passa a nominare gli Stati del Sud non si considerano mai quelli che a livello di latitudine sono più a sud di altri. La divisione è basata invece sul fatto che stati del sud sono definiti solo quelli che durante la guerra civile combatterono per mantenere la schiavitù e persero. In questo raggruppamento il Kentucky, la Louisiana, il Mississippi, la Georgia, l’Alabama, il Tennessee, sono certamente stati che si trovano a sud, ma non certo fisicamente più a sud della Florida, del Nevada, dell’Arizona del Texas o del New Mexico che tuttavia non sono considerati “del sud” perché non presero parte a quella guerra.
Una considerazione che proprio nei giorni di Charlottesville torna di attualità e fa discutere se eliminare le statue dei generali del sud che furono per lo schiavismo sia una cosa plausibile o invece una sorta di eliminazione ingiustificata della storia del paese.