La voce del poeta: Alberto Fraccacreta
La nitida luce del vero
Passione e dedizione per la poesia, abitudine all’«ascolto interiore del verso» sono per il giovane poeta l’esito del cortocircuito tra lirismo montefeltresco (Urbino, luogo di residenza) e paesaggio arido del Tavoliere (la Puglia, terra d’origine)
Alberto Fraccacreta, di origine pugliese, ha pubblicato le raccolte poetiche Uscire dalle mura nel 2012 e Basso impero (132 pagine, 12 euro) nel 2016, entrambe edite da Raffaeli Editore. La sua poesia si connota per le implicazioni religiose – ma di una religiosità a suo modo eretica – e per una pronuncia scabra, che poco concede sul versante propriamente lirico, con accensioni di stampo luziano. Andrea Gareffi nell’introduzione osserva: «Il passo di Fraccacreta è quello del pronatore alle gambe arcuate, chiamato alla lotta dall’incertezza, che sola si arrende alla conoscenza di chi ne fa prova».
Può parlarci della sua ultima raccolta?
Il titolo Basso Impero rimanda alla condizione attuale di empire à la fin de la décadence. Lo scricchiolio dei valori, l’incertezza di una relazione con l’Assoluto e con gli esseri umani, ci spingono verso un terribile buio dell’anima, un castello interiore dal quale è possibile uscire grazie anche all’apporto della poesia, intesa però come parresia, coraggio della verità, capacità di revisione del proprio vissuto nella “nitida luce del vero”, per citare Zagajewski. Il significato dell’espressione è, dunque, ambivalente: dalla negatività, dalla nostra stessa pochezza – ed è in fin dei conti la lezione di Montale – possiamo trovare la forza dell’apertura, di un incontro reale con il prossimo e con Dio (il grande destinatario di ogni poesia, l’assolutamente altro), percepiti nella giusta prospettiva. Il libro si concentra, inoltre, sulla figura femminile nelle sue varie declinazioni: salvifica, la Madonna; maestre, la mamma e le nonne; compagna nel destino e nella sofferenza, la donna amata.
Lei vive e opera in provincia. Ritiene che ciò rappresenti un vantaggio o uno svantaggio per chi si occupa di poesia?
Vivo a Urbino: non è provincia, ma «una creazione poetica», come ebbe a dire Carlo Bo. Urbino è sospesa, assente, incomprensibile. Si ha nostalgia di questa città ideale dentro le mura, non fuori. Di notte ricorda la Pietroburgo di Belyj e Gogol’, la Praga di Werfel e Hašek. Di giorno «vanisce nella purità del suo nome», come Siena di Simone Martini. Credo sia il quadro pierfrancescano per eccellenza, il luogo perfetto in cui occuparsi di poesia, nel senso di un vivere costantemente la poesia. Per mia fortuna, inoltre, sono pugliese – ho nel sangue quello che Camus definiva il pensiero meridiano –, e proprio da questo cortocircuito tra lirismo montefeltresco e paesaggio arido del Tavoliere è nata la passione e la dedizione per la poesia.
Qual è, secondo lei, la situazione poetica in Italia?
La nostra letteratura nasce nel suo vertice, non nel suo fondamento. Sotto tale aspetto è unica al mondo. Dante ha esplorato tutte le possibili soluzioni liriche. Anzi, ha costruito un’intera cantica, il Paradiso – forse il massimo testo poetico della storia –, sfidando costantemente il dicibile e mantenendosi in singolare equilibrio sulle soglie del non detto. Dopo di lui Petrarca ha dovuto operare una lunga, frustrante (ma pur sempre ineccepibile) saturazione e cristallizzazione della parola, escludendo tutto quel cosmo che Dante era riuscito magicamente a inglobare nel verso, e relegando la poesia in un limbo linguistico-concettuale dal quale ancora oggi fatica a uscire, se non per impantanarsi in avanguardie e sospensioni prive di bellezza. Con l’adozione dell’endecasillabo sciolto e del verso libero Leopardi era riuscito a creare una lingua “nuova”, maggiormente emancipata. Oggi abbiamo bisogno non solo di un grande poeta, ma di un genio linguistico che faccia “volare alto la parola”, che reinventi e ridoni freschezza alla lingua, bilanciando il senso estetico con l’invasione oggettuale di elementi della modernità che hanno una presenza e una consistenza tutt’altro che poetica. Un ultimo, serio tentativo è stato proposto, paradossalmente, da uno scrittore, Gadda, il quale però ha rimpastato la lingua sempre all’interno di un quadro letterario estremamente rigido che, come reazione, ha portato a un minimalismo eccessivo, già denunciato da Luzi vent’anni fa. Oggi abbiamo più bisogno di linguaggio e di verità.
Può parlarci della sua frequentazione con il poeta polacco Adam Zagajewski?
Gli ho scritto una mail per intervistarlo, ha risposto con una classe unica. È poi venuto a Urbino, ha ricevuto – quasi a sorpresa – il Sigillo d’Ateneo. Ne abbiamo fatto un libro. È un grande poeta e un grande uomo. Un amico al quale sento di dover confessare cose intime.
Quali sono gli autori che maggiormente hanno contribuito alla sua formazione?
Appunto, Zagajewski con la sua immediatezza colta; Montale che è stato il primo amore; il Luzi “paradisiaco” per la sua ricerca di una lingua pura e di un luogo di luce. Ma anche Heaney che ha aperto al mio pensiero la possibilità di nuove strategie poetiche, sino ad allora ignote. E, più di tutti, mio padre.
Cosa pensa della diffusione della poesia nel web?
Ritengo sia legittimo estendere la conoscenza della poesia nel web. Questo fenomeno, ad esempio, è particolarmente imponente nell’America Latina e promuove una cultura popolare della poesia. Come ha osservato il messicano Marco Antonio Campos, però, alla fine dei giochi, della miriade di poeti disseminati nell’onda delle generazioni se ne salverà solo qualcuno. Il vero pericolo non risiede tanto nella pubblicazione dei testi, quanto nella diffusione sempre più capillare di una certa idea di poesia, a mio giudizio errata, che promuove il dilettantismo, la mancanza di serietà e di fiducia nell’atto poetico e che il Nobel conferito a Dylan – geniale cantautore, ma non poeta stricto sensu – ha contribuito a esaltare, a scapito di ciò che Heaney e Sereni definivano come il «lavoro della poesia». Il web potrebbe, invece, educare ognuno di noi all’ascolto interiore del verso, perché la poesia è uno slow food: va assimilata con calma.
Cosa sta preparando attualmente?
Sto cercando di concentrarmi sull’idea di prosa poetica come la intendono, in particolare, gli scrittori mitteleuropei, e cioè come qualcosa a metà tra la biografia, la critica letteraria e l’intuizione lirica. Credo sia superato il tempo della pura finzione letteraria. La letteratura deve e può dare risposte concrete ai giovani e a coloro che avvertono una profonda inquietudine spirituale. Ma riesce a farlo meglio attraverso l’esperienza personale nella sua veridicità, non filtrata dall’ingombrante armamentario della creazione ex nihilo. Il romanzo e la scrittura in prosa stanno lentamente evolvendo verso questa vincente formula “lirico-saggistica” che autori come Mandel’stam, Walser, Proust, Bulgakov, Brodskij e in parte i nostri Tomasi di Lampedusa e Bassani, hanno consegnato alla modernità quale testimonianza di vita prima che di alta letteratura.
Può commentare la poesia inedita presentata?
Temo di esibire una poetica abbastanza monotona. È il guaio di avere Petrarca come capostipite. È la solita variazione sul tema della donna, della visione reale ma trasfigurata, della manifestazione fisica di quell’essere così straordinariamente vicino e, direi, quasi addentro al pensiero stesso di Dio.
***
Ultime curve in una sera
di fine febbraio, in uno spazio
di silenzio tra bionde lanugini di foresta
e il cielo striato dal bianco,
solo e senza sole, lungo la cintura
di un ingrato tramonto.
La fronte corrugata da linee di fumo
ruvide gocce sulle ringhiere, sbavature tenui
nel percorso inverso della lumaca.
I boschi sorgivi in lontananza, i torrenti
prosciugati e mai sperati,
qualche cervo sceso dai prati,
le rotatorie incornate da un’opera
futuristica incompresa.
Tutti segnali.
Questa visione persiste nel sogno
ad occhi aperti del tuo ritorno,
che di giorno mi accompagna
nel burberry nocciola delle pupille
da casa a via Veterani, come fosse
il nastro unico della mia vita
il film visto e rivisto mille volte.
In inverno, senza maggese
a bassa risoluzione
tra lavoro serafico e ozio letterario,
sogno per cui vedendoti di nuovo
nello squarcio tenebroso di realtà
tu sorridente mi venissi finalmente
incontro, e ancora e ancora di più
uscendo dal meraviglioso.
Alberto Fraccacreta