Se intellettuali, politici, uomini di buona volontà di oggi – noi tutti, insomma – avessimo voglia di comprendere quale tumore da 40 anni ci costringe a cure palliative incapaci di debellare il male, ma solo a riprodurlo in mezzo a qualche distrazione, faremmo bene a rivedere un film del 1983 del regista di origine sarda Nanni Loy, un equivalente postbellico di Voltaire dal fare allampanato di cui non si può dimenticare la stralunata ed etnografica trasmissione, antesignana delle candid camera, Specchio segreto (1965). Il film è Mi manda Picone , interpretato da Lina Sastri e Giancarlo Giannini, con la partecipazione anche di Aldo Giuffré, Leo Gullotta e Carlo Croccolo, uscito nelle sale appunto nel 1983, lo stesso anno in cui si concluse il processo Moro con l’ergastolo a 32 brigatisti rossi, facendo presagire l’uscita dagli anni bui della strategia della tensione e l’inizio di un periodo di spensieratezza consumistica – indotto dalla crescita del PIL nazionale in concomitanza con l’aumento della spesa pubblica, con relativo deficit che fa ancora pesare i suoi effetti al giorno d’oggi – sintetizzato nell’espressione «la Milano da bere».
Ma quello è stato anche l’anno della scomparsa in circostanze misteriose di Emanuela Orlandi, figlia di un dipendente del Vaticano e, soprattutto, l’anno in cui a Napoli vennero emessi 856 ordini di cattura contro uomini politici, avvocati e imprenditori accusati di collegamento con la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, fra i quali spiccava il nome di Enzo Tortora, la cui odissea giudiziaria meriterebbe ancor oggi di essere ricordata.
Benché il film prenda avvio dall’episodio avvenuto nel corso di una seduta del consiglio comunale di Napoli durante la quale l’operaio Pasquale Picone (Tommaso Paladino) si cosparge di benzina e si dà fuoco per protestare contro il suo licenziamento all’Italsider, Mi manda Picone passa ancora per una felice commedia napoletana, divertente e ironica, tutto sommato innocua nei suoi intenti provocatori, con una colonna sonora di Pino Daniele molto lirica, intitolata Assaje e interpretata da Lina Sastri, anch’essa molto travisata a causa della melodia inebriante che rivela, però, un testo denso di significati. Alla terribile scena di cui si diceva, assiste anche la moglie Luciella (Sastri) con i figli, che disperatamente non riesce a raggiungere Pasquale Picone mentre lo caricano in ambulanza. Tutti i tentativi di rintracciarlo presso gli ospedali cittadini risultano vani, e ad aiutarla nella sua ricerca interviene un disoccupato che vive di espedienti, Salvatore Cannavacciuolo (Giannini), che Lucia scopre essere uno dei debitori del marito.
Il ritrovamento di un’agenda di Picone, con segnati nomi e cifre, permette a Salvatore di iniziare a ripercorrerne le tracce, finendo per addentrarsi in un sottobosco fatto di malavitosi di ogni risma e scoprendo, infine, che lo stesso Picone era una figura di spicco in quegli ambienti, a totale insaputa della moglie.
Senza rivelare il finale, che riapre la trama in maniera sorprendente, si deve subito notare che, se alle prime può apparire un giallo dalle tinte rosa capace anche di strappare sorrisi, e frettolosamente verrebbe voglia di accostarlo ai film di De Crescenzo sulle vicende di Bellavista (con cui condivide al massimo la contestualizzazione con la napoletanità dell’epoca), il film rivela molto di più.
Quello che lo rende unico, la formula narrativa felicissima concepita dal regista, è appunto una denuncia sempre presente nella storia, resa con un ritmo incalzante ma con il contrappunto dell’inevitabile umorismo delle battute e delle situazioni. Tutto si realizza evitando, tuttavia, la tentazione superficiale del macchiettismo fine a se stesso, ovvero l’esatto contrario della polemica educata ma implacabile, che è il maggior pregio del film.
In sintesi, lo spettatore può godere appieno della cifra inconfondibile dello stile di Nanni Loy che con questa pellicola ha dimostrato di essere più napoletano dei napoletani, esattamente come il Sorrentino de La grande bellezza ha dimostrato di essere più romano dei romani. In Mi manda Picone si è proiettati in una dimensione a tratti metafisica, resa anche dalle ambientazioni notturne, dove gli antichissimi palazzi del centro storico di Napoli appaiono come luoghi dei misteri inconfessati, con volti scavati e asimmetrici dalle cui bocche escono sentenze implacabili.
Lo stesso Cannavacciulo, il vero protagonista della vicenda è un simbolo raffinato della precarietà: spettinato, incravattato e impolverato, Giannini cammina sempre combattendo con la difficoltà delle calzature, immancabilmente con una busta di plastica, con dentro una confezione di pastina, da consumarsi allorquando la comodità lo possa consentire. Gli altri personaggi sembrano satelliti attorno a questo eroe dell’equilibrismo quotidiano, ma ognuno è un universo, una storia che potrebbe durare all’infinito, una giustizia da gridare, un dolore da confessare. Se il regista avesse indugiato in alcuni aspetti avrebbe potuto davvero tracciare un film dai forti risvolti etnografici. Ne esce comunque un quadro netto che colpisce lo spettatore attento a non farsi distrarre dalla comicità involontaria.
Mi manda Picone è un affresco della deriva morale, sociale e culturale italiana e meridionale tracciato ricollegandosi almeno idealmente alla denuncia pasoliniana del definitivo snaturamento dei costumi nazionali. I ricatti non sono solo quelli materiali, sono soprattutto quelli morali, come la strisciante tentazione di assicurare alla propria famiglia livelli di benessere che con il semplice lavoro onesto non si possono assicurare: cosa si può fare? Si può lavorare per la camorra nel “dopo-lavoro”, all’insaputa dei propri familiari, salvando le apparenze e creandosi una doppia vita. È quello che fa l’introvabile Picone, prototipo perfetto del proletariato meridionale che si riscatta attraverso mille espedienti illegali per atteggiarsi a piccola borghesia consumatrice, senza sfigurare con i compagni “di classe” delle più fortunate regioni settentrionali. Nanni Loy, regista e autore del film, compie questa analisi non dieci anni dopo l’emergere del fenomeno, ma proprio quando esso inizia a spuntare e a diffondersi, in piena epoca di rampantismo craxiano, sotto il naso di tutti noi, spettatori attivi e non di un quotidiano sempre più filtrato dall’immaterialità dei media.
Siamo negli anni in cui si diffondono le doppie auto per famiglia, le doppie case, le doppie vacanze. La sensazione è quella appunto di un raddoppio continuo, di un consumo illimitato, in un contesto dove è assolutamente inimmaginabile che un giorno le pensioni di anzianità non possano essere più erogate dallo Stato. Dove forse la stessa idea della morte non appartiene più agli uomini.
Ecco, questo film squarcia il velo patinato di quella menzogna, ancora straordinariamente desta, del crescente benessere diffuso, agognato da strati sempre più ampi di popolazione meridionale prima, ed immigrata poi, che non vuole mancare al grande banchetto del godimento. Lo fa con un’estetica garbatamente rabbiosa che si potrebbe definire come “metafisica del paradosso”, ovvero l’anima autentica della napoletanità, che non è semplicemente “comicità”, bensì “umorismo”. A Napoli il riso è sempre frutto di una riflessione, motivo per cui il dolore si mischia alla gioia, il volto si confonde con la maschera e in Mi manda Picone questo lo si assaggia quasi ad ogni fotogramma, anche in quelli dove è possibile rintracciare embrionalmente la denuncia dei bambini-soldato della camorra (la sequenza del film a Marechiaro), su cui trent’anni dopo si sofferma Roberto Saviano. Perciò questo umorismo che attraversa il film è intervallato a tratti da brevi silenzi malinconici, introspettivi, ai limiti dell’incomunicabilità, senza la risata gratuita, cercata con forzato effetto.
Con questa storia, Loy getta un faro di luce sull’altro lato delle lusinghe dei modelli dell’agiatezza di massa, che proprio negli anni ’80 hanno fatto man bassa di coscienze, corpi e menti, imponendo linguaggi asettici, espressioni culturali ad hoc, dal sapore mortifero del nylon da confezione regalo, da panettone industriale dal gusto anonimo e pertanto molto amato da tutti o del whisky che ci fa tutti Michele.
Val tuttavia la pena notare che la Napoli descritta nel film di Loy era quella – la immortalano impietosamente alcune sequenze – in cui il Comune autorizzava il parcheggio dei pullman a piazza del Plebiscito. Da qualche anno quei pullman non ci sono più. E forse non solo a Napoli. Val la pena sperarlo.