Roberto Mussapi
Every beat of my heart, la poesia

Sognando l’archetipo

Un racconto di Borges su Coleridge. Il palazzo magnifico di Kublai Khan che voleva una dimora in cui il mondo intero fosse degnamente rappresentato. E i versi del sommo poeta romantico che di quel palazzo descrive le delizie e gli orridi…

Nel Sogno di Coleridge, uno dei saggi-racconto di Altre inquisizioni, Borges riferisce che Coleridge – il sommo poeta romantico, autore della Ballata del Vecchio Marinaio – scrisse il frammento lirico Kublai Khan dopo averlo sognato: si era infatti addormentato leggendo un passo in cui veniva descritta l’edificazione di un grande palazzo da parte del sovrano tartaro e le parole appena lette avevano preso forma nel suo sogno. Ma – aggiunge Borges – Coleridge non poteva sapere che quello stesso palazzo era anch’esso frutto di un sogno: Kublai Khan infatti lo costruì seguendo un progetto che a sua volta aveva visto in sogno e conservato nella memoria: lo stesso archetipo che chiedeva di venire alla luce.
Kublai Khan, l’imperatore di tutti i Tartari, il signore dalla corte lucente a cui giunge e di cui diverrà ambasciatore Marco Polo, si rivela il simbolo assoluto dell’Oriente, del luogo dove nasce il sole. Il suo palazzo magnifico, descritto dal mercante veneziano, è frutto del sogno umano di edificare una dimora in cui il mondo intero sia al pieno rappresentato: dall’altezza delle mura verso il cielo al verde, erba, piante, fiori, ai ruscelli. Da questo non può essere escluso anche il mistero, l’orrore del baratro, la vertigine.
Nel suo breve, magnifico saggio-racconto, il grande Borges svela anche la nascita della poesia come di ogni opera d’arte dell’uomo: un sogno che, custodito sapientemente al risveglio (per merito del poeta e dono divino) consente all’archetipo sognato di prendere forma, venire alla luce.

 

Nel Xanadu Kublai Khan fece erigere

un palazzo sontuoso di delizie,

dove scorreva Alp, il fiume sacro,

per caverne mai sondate dall’uomo,

sfociando in un oceano senza sole.

Dieci miglia di fertile campagna

furono cintate da mura e torri,

giardini lucenti di sinuosi ruscelli,

e vi fiorivano molti alberi d’incenso,

e foreste antiche e antiche colline,

che cingevano il verde nutrito dal sole.

 

Ma poi quel cupo abisso strapiombante

dal verde colle e da una boscaglia di Cedri!

Era un luogo selvaggio, e sacro e incantato come quello

dove sotto la luna calante va a gemere

una donna ossessa dal demone che l’ama!

Samuel Taylor Coleridge

(Traduzione inedita di Roberto Mussapi)

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