Every beat of my heart
Recitare poesia
Sulla scia di Eliot, Luzi, Walcott, Roberto Mussapi da anni è impegnato nel progetto di «portare sulla scena la parola poetica, ma senza diminuirne l’energia espressiva». Tratto dalla nuova raccolta di Mussapi “Voci prima della scena” da oggi in libreria, pubblichiamo il monologo di Cassandra
Nel Novecento Thomas Stearns Eliot riformula i tre generi di poesia: lirica, epica e drammatica. Il suo teatro metafisico costituisce una novità potente nella poesia del Novecento. Un altro grande poeta del secolo, Mario Luzi, a un certo punto, con Ipazia, si trova a scrivere poesia drammatica, o teatro in versi. Per non parlare di un’altra anima affine, Derek Walcott, per cui poesia e teatro coincidono.
Dalla fine degli anni Ottanta opero in una direzione in cui le due realtà espressive debbano ritrovare un punto d’incontro. Pubblico ora un libro di monologhi teatrali in versi: il teatro nasce come genere poetico, con i tragici greci, e giunge al culmine con Shakespeare e Marlowe.
Come scrive Maurizio Cucchi nella prefazione al mio volume, «il progetto è quello di portare sulla scena la parola poetica, ma senza diminuirne l’energia espressiva».
Risparmio al lettore la stima che Cucchi manifesta confronti del mio lavoro in questo senso, sperando che i risultati siano all’altezza delle mie aspirazioni.
Cassandra
La mia profezia fu cecità assoluta.
E la mia voce fu essere muta.
Più esattamente vedevo nel futuro
più mi copriva gli occhi un diniego oscuro,
più la mia voce diceva il vero
più rimbalzava, vuota, inascoltata,
parlavo come nei sogni più incubosi
quando la voce a tutti è solo il suo rumore,
ma è lingua, lingua e visione esatta a te che parli.
Lingua, parole concatenate.
Che battono a terra rotte, inascoltate,
come la tua visione che brilla certa e lampante
a loro appare come uno sguardo velato
o, essendo donna, spesso abbacinato.
La mia profezia fu l’essere cieca,
le mie parole furono mute.
La porta della reggia, il simulacro di Apollo,
la nave ha appena attraccato e vedo il suo volto
al limite del palazzo di Agamennone,
il re che torna, e che mi fece schiava,
io, la più bella delle figlie di Priamo,
una rondine, pensano,
estranea al loro idioma come una rondine
giunta all’improvviso da oltremare,
e dal palazzo fetore di sangue e morte
e il rosso inebriante dei preziosi tappeti
che la regina stende al signore che torna
è tutta porpora strappata ai murici del fondo
il mare sanguina, sento la morte
il coro mi teme e interroga, come non bastasse
la rovina che avevo predetto
e la distruzione della mia Ilio,
come tutto non si fosse avverato
quanto la voce urlava dalla mia gola.
Sanno che sono profeta, dice il coro
ma sanno di vivere in un mondo
che non ha bisogno di profeti, che li teme:
ora io vedo il bagno di marmo dove entra Agamennone
e il bagno di sangue del suo corpo abbattuto
da lei, dalla regina adultera
che mentre il marito conquistava Troia
facendo scempio di quelli del mio sangue
si congiungeva nel suo letto con Egisto,
sento che lo colpirà e poi toccherà a me la morte
colpevole di essere stata fatta schiava.
Via queste bende, giù, per terra la veste mantica
su questa terra concimata a sangue,
e la verga spezzata, così, in due parti
come vorrei fosse del mio corpo di maledetta
punita da Apollo per averne rifiutato lo stupro
punita a non essere mai creduta dicendo il vero…
Tutto invece si avvera mentre parlo,
il re sul carro esita un istante senza saperlo,
poi scenderà, ecco scende, calpesta i tappeti di murice,
calpesta il corpo del mare fatto sangue,
ecco, non ho più veste né verga,
così, senza più oracoli parlo a me stessa
nell’ora che precede la mia morte.
La mia profezia fu cecità assoluta,
la sorte degli uomini un enigma,
la felicità il sogno di un’ombra.
Se viene la sventura anche quel sogno svanisce
come tratto di umida spugna cancella un dipinto.
Simile a un usignolo, mi dissero,
che mai sazio di gridi perennemente canta
e piange per tutta la vita in una selva di mali.
Senza saperlo mi deridevano
perché anche l’usignolo è più felice di me!
Gli dei vestirono di ali il suo corpo
dandogli dolce vita anche nel pianto.
A me questo rimane, la voce inascoltata e franta,
e la visione del futuro incombente,
inascoltata, cieca nel presente
Non c’è ombra di sogno nei miei occhi
ma visione di un’incessante condanna.
Roberto Mussapi
(Da Voci prima della scena – Monologhi in versi, La collana, Stampa 2009; foto © montagnani)