A proposito di "Regni"
Poesia della lontananza
Daniele Piccini con i suoi versi riesce a ricomporre la contraddizione (tanto amata dai poeti classici) tra vero e verosimile, realtà e suggestione. La sintesi è nella concretezza di una donna-Madonna
Nell’operetta morale Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare Leopardi pone in questione, per bocca del poeta sorrentino, uno dei temi fondamentali della letteratura italiana e dell’intera tradizione occidentale: «Non so. Certo che quando mi era presente, ella [scil. la donna amata] mi pareva una donna; lontana, mi pareva e mi pare una dea». Si tratta della consueta discrepanza tra ideale e realtà, tipica dell’essere umano in generale e ancor più evidente, direi quasi addentro alla fucina immaginativa del poeta. Si può pensare la donna esclusivamente nel sogno e nell’assenza? Può essere definito il puro viso di donna come viso dell’assenza? È sostenibile ai nostri giorni l’idea provenzale della lontananza assoluta dell’amata (mi viene in mente Jaufre Rudel)? Se il punto di riferimento del dibattito moderno sul tema resta Eugenio Montale, alla cui ascendenza dantesca – in certa misura invertita e “petrarchizzata” – si somma un grado di “sbigotimento” e negatività cavalcantiana (con tutti i crismi e le variazioni della precedente lirica trobadorica), l’orientamento della poesia contemporanea sveste l’assenza delle componenti completamente elusive, per mantenere in realtà i caratteri positivi dell’attesa, della congiunzione dei mondi, del dialogo con l’alterità.
Si può dire che l’assenza provenzale sia oggi inglobata in una maggiore presenza, cioè in una più autentica visione del reale che rende l’altro impalpabile e sfuggente anche nel pieno cospetto e ricrea così l’attesa dell’altro – per usare un’espressione weiliana –, percepito entro una prospettiva cosmica e infinita (non solo nel biologico e nel transeunte), quella «nitida luce del vero» con cui Adam Zagajewski risolve perfettamente, a mio avviso, i termini della questione. La donna amata diviene così del tutto reale, senza però perdere ciò che i mistici chiamano il “progetto di Dio” in lei, che tanto lasciò sedotti i poeti del passato. Su tale linea transita anche la poesia di Daniele Piccini, il quale con maggiore nitidezza rende chiaro in quest’ultima e ben misurata silloge (Regni, Manni, pp. 104, euro 14) il suo bersaglio lirico, giocato essenzialmente su due concetti chiave, presenti anche nella sua produzione critica: il ricordo e il desiderio, sentimenti entrambi “purificati” dalle scorie del peccato e dell’errore, visti dunque in uno sfondo escatologico, nel quale il punto d’equilibrio è costituito proprio dalla donna. «Il desiderio è una fitta del sogno,/ sospende il fiato, la gravitazione,/ mentre i cani dalle aie si lamentano:/ il tempo astrale si ferma nel cuore/ senza che nulla si possa cambiare,/ solo si rompe il ritmo delle ore,/ il respiro si mozza alla tua immagine./ Sei un diamante che rompe la luna,/ buca di colpo la quinta del petto/ dove invecchiano solo vecchi amori». La donna è dispensatrice e intermediaria tra il mondo finito e il mondo infinito, due regni fluidi e scorrevoli, talora sovrapponibili, secondo la lezione luziana molto meno rigidi di quel che si ritiene normalmente, nei quali è giocata di rimbalzo la partita finale dell’uomo.
Il mondo trascendente preme con ammirevole tenacia alle porte del quotidiano, forte delle sue schegge, dei suoi frammenti, delle sue illuminazioni che il poeta, secondo un rigore rimbaldiano, riporta su carta. Giustamente nella Nota introduttiva di Antonio Prete è segnalato il «pensare quel che è assente come parte del nostro vivere, [il] fare dell’assenza – di stagioni e figure, di voci e di sguardi – un principio di appartenenza, insomma il proprio che è all’origine del linguaggio».
Il compito universale di lotta e resistenza contro il dolore Piccini lo affida alla donna storica, la donna amata appunto, la quale però reca in sé una traccia di idealità “incarnata” che la nobilita e la sostiene, l’Immacolata Concezione, paradigma di salvezza cosmica, che riallaccia la nostra tradizione all’innografia mariana del latino tardo antico. Il salto di Piccini è, a ben vedere, una correzione filologica e filosofica dell’errato affidamento al visiting angel, l’angelo disincarnato e gelido, incapace di vero scampo ai mali della storia. «Da vicino la Vergine è di opale,/ un incarnato lieve ma sanguigno/ nella severa posa delle braccia.// Conosce e copre tutto, anche il tormento/ che toglie bene al giorno, pace all’ombra./ Anche quelli che sbagliano lo sanno». L’immagine pierfrancescana della Madonna del Parto (conservata presso Monterchi a pochi chilometri da Sansepolcro, città d’origine di Piccini, nella foto accanto al titolo) restituisce vividezza all’immaginazione, inchioda il poeta al centro di tutte le attese, sino al pensiero del ritorno parusiaco in quell’attimo eterno, «in quel tempo-non tempo che si ferma».