Una storia del Sahel
Perimetro Kuhn
Come altri milioni di sbandati dell’immediato dopoguerra, anche Kuhn avrà fatto parte di quella caotica transumanza umana che rimescolò intere popolazioni nell’Europa devastata dalla guerra
Pochi chilometri a nord di Goronyo, Nigeria settentrionale, c’è quel che resta del suo lavoro. Dieter Kuhn era un agronomo tedesco di origini ebraiche, sopravvissuto ai campi, che nel secondo dopoguerra venne a stabilirsi qui, nei pressi del confine tra la Nigeria e il Niger, e vi fondò un’azienda agricola. Da quando la Compagnia ha aperto la sua base a Sokoto, ci siamo imbattuti di frequente nel suo nome.
Innanzi tutto, il luogo. La prima caratteristica che salta agli occhi del forestiero, è la sua ampiezza. La vastità degli spazi predesertici che annunciano il Sahel, e la solitudine umana che in essi è rappresentata. Sono luoghi inabitati, o scarsamente abitati. Luoghi solitari. La ragione è semplice: manca l’acqua; è questo che rende la vita – umana, animale, vegetale – tanto rarefatta. Eppure, a leggere i dossier del progetto, le schede d’informazione climatica e ambientale e le statistiche sulle precipitazioni, l’acqua qui non sarebbe poi così scarsa. Non siamo ancora alle soglie del Sahara. Ci troviamo a sud del grande arco del Niger, il fiume fa da cintura e barriera e contiene il deserto.
All’epoca di questa storia la Nigeria era colonia britannica. Tuttavia le regioni del nord, che gravitavano attorno all’area dell’antico sultanato di Sokoto, non si erano mai del tutto sottomesse all’autorità coloniale. La dominazione straniera, basata a Lagos, controllava il sud del paese e la costa, ma perdeva d’influenza a mano a mano che si procedeva verso nord, penetrando nell’interno; ed era quasi evanescente lungo i labili confini che separavano i domini inglesi da quelli francesi, entro la fascia poco abitata del Sahel, dove le deboli amministrazioni coloniali europee sfumavano l’una nell’altra e in realtà si confondevano, amalgamate e fuse dall’anteriore, più radicata e più salda organizzazione tribale della società.
Con questa geografia e con questa storia, Dieter Kuhn non aveva nulla a che fare. Era nativo dei sobborghi di Danzica e prima del nazismo e delle leggi razziali aveva lavorato per diversi grandi proprietari terrieri nei latifondi agricoli della Pomerania settentrionale. Viveva nelle immense tenute degli junker, dove s’estendevano a perdita d’occhio campi ricchi e ben irrigati, coltivati a luppolo, frumento, mais e patate.
Kuhn era il reponsabile delle piantagioni, per conto dei latifondisti organizzava e dirigeva il lavoro nei campi. Mestiere duro: negli anni Trenta la condizione contadina nelle regioni tedesche dell’ex-Prussia Orientale era tremenda, poco al di sopra della servitù della gleba. Kuhn s’intendeva d’agricoltura, cioè di sfruttamento sistematico del suolo e dei suoi coltivatori. A vantaggio dei grandi proprietari, manteneva l’ordine e la disciplina nelle piantagioni. Il lavoro dei contadini non era retribuito in denaro, ma compensato due volte l’anno, al momento del raccolto, principalmente con elargizioni in natura: cibo, ma anche coperte, carbone per scaldarsi, utensili, tessuti; tutto ciò che serviva a tenere in vita le famiglie. Il valore di questi e degli altri beni che i contadini consumavano durante l’anno, veniva detratto dalla paga che spettava loro, e il risultato era che quasi mai avanzava qualcosa. I contadini erano sempre in debito nei confronti della proprietà, e non riscuotevamo praticamente mai denaro contante per il loro lavoro. Questo li teneva legati alla terra, che consentiva loro di sopravvivere e alla proprietà di arricchirsi.
Kuhn era un guardiano di quest’ordine. Organizzava il lavoro, decideva semine e raccolti, sperimentava tecniche agricole, stabiliva la rotazione delle colture, intraprendeva opere d’irrigazione e manutenzione dei campi, introduceva migliorie tecniche e strutturali; e dirigeva il lavoro nelle piantagioni secondo metodi abbastanza simili a quelli di un campo coatto.
A parziale scusante, si può dire che era anche lui un lavoratore, e indefesso. Di umili origini, aveva avuto modo di studiare, sia pure nient’altro che agronomia, ma non s’era mai emancipato dai villaggi rurali ed era entrato giovanissimo a servizio da uno dei proprietari. Che ne aveva notato e valorizzato le doti. Kuhn era bravo nel suo lavoro. Metodico, ostinato, organizzato; rispettoso delle differenze di classe e ossequioso verso i potenti; duro, di poche parole, severo e intransigente coi contadini. Con loro, a parte l’estrazione sociale, aveva poco in comune, né dio né religione né razza. La popolazione contadina cattolica dei villaggi lo odiava.
Con questi i trascorsi, nessuno può dire di lui che fosse un umanitario. Era una sorta di kapò ebreo, un braccio armato della nobiltà terriera, e non amava il popolo. Quando nei latifondi trovarono applicazione le leggi razziali, anche Kuhn, malgrado i suoi meriti verso gli junker, perse il posto. Dovette vagare senz’arte né parte nei primi esodi interni mitteleuropei, non solo ebraici, degli anni Trenta, e si ritrovò nel ‘41 a Theresienstadt, il tristemente noto centro di deportazione. Sopravvisse alle privazioni del campo, da cui partirono per mesi e mesi i convogli destinati ad Auschwitz e a Treblinka, e fu liberato nel ’45 da un plotone di russi. Qualche anno dopo, per ragioni che fatico a comprendere, partì per l’Africa.
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S’imbarcò nel novembre del ’48 a Rotterdam, su un mercantile francese che faceva rotta su Port Harcourt, golfo di Guinea, foci del Niger. Cosa l’abbia portato a Rotterdam, perché s’imbarcò su quel mercantile e perché poi per le coste nigeriane, non è chiaro, ma in fondo per questa storia è irrilevante. Come altri milioni di sbandati dell’immediato dopoguerra, anche Kuhn avrà fatto parte di quella caotica transumanza umana che rimescolò intere popolazioni nell’Europa devastata dalla guerra. Avrebbe potuto, più ragionevolmente, finire in Palestina, come centinaia di migliaia di suoi connazionali; oppure restarsene rimpiattato in qualche angolo d’Europa, quel continente di orrori, e migrare poi in America. Era probabilmente un uomo solo, umiliato, esacerbato, povero e battuto, e le sue decisioni non furono razionali. Irrazionalmente, optò per l’Africa.
Ma questo filo d’irrazionalità, che forse conteneva solo caso in principio, dovette intrecciarsi a qualcosa di più tenace nella sua indole, quando, dopo tre settimane di navigazine atlantica, sbarcò a Port Harcourt. Perché qui le sue azioni cominciano ad assumere una sorta di determinazione, sembrano tracciare un disegno. Non sono più solo casuali, hanno una loro necessità.
Port Harcourt a quell’epoca era ancora un modesto insediamento costiero, un porto affogato nelle mangrovie su uno dei rami principali del delta del Niger. Faceva da terminale del trasporto fluviale di carbone estratto nelle miniere di Enugu, duecento chilometri a nord. Il carbone veniva cavato nei pozzi, caricato su chiatte, trasportato lungo il Niger fino all’Atlantico, qui trasbordato su navi carboniere che salpavano per il Nord Europa o per l’Inghilterra.
La città aveva già allora, quindi, sia pur su dimensioni ridotte, quella natura di porto mercantile e di centro minerario che conservò anche in seguito, espandendosi incontenibilmente quando nel delta fu trovato il petrolio. Dopo quella scoperta, vi fu un’esplosione economica che dagli anni Sessanta in poi travolse non solo Port Harcourt ma l’intera Nigeria, con l’arrivo delle grandi compagnie petrolifere, i loro insediamenti costieri, l’insorgere della selva di piattaforme offshore che oggi fronteggiano il delta del fiume, la guerra del Biafra e molte altre conseguenze, inclusi l’accelerato sviluppo economico della nazione e la crescita convulsa della città.
Ma questo avvenne molti anni dopo. Allora Port Harcourt era un insediamento commerciale semi-primitivo, una modesta base coloniale alla foce di un fiume di limitata importanza economica. Solo un luogo di transito per Kuhn, che trovò un altro imbarco su uno dei battelli che lo risalivano e proseguì il suo viaggio nell’interno del continente.
Risalire il corso di un fiume è in generale un modo lento e intenso di penetrare nel cuore di un Paese. In più, qui c’è un altro elemento: il Niger. il Niger è un fiume particolare, per secoli è stato un mistero per i geografi di tutto il mondo. È il terzo fiume più lungo dell’Africa, dopo il Nilo e il Congo, e tutti e tre, ciascuno a suo modo, sono fiumi emblematici del continente africano. Volendo schematizzare, il Nilo, il maggiore dei tre e certamente il più famoso, è il fiume della storia, una delle culle della nostra civiltà; ci ricorda che l’uomo è originario di qui, nasce in questo continente, poco lontano dalle sue misteriose sorgenti. Il Congo è il suo opposto, un fiume tenebroso, ben poco spazio per la civiltà umana e una potenza d’acqua indomabile, seconda solo a quella del Rio delle Amazzoni. Poi c’è il Niger, il fiume del deserto, il più strano e contraddittorio dei tre, e il meno facile da capire.
Il Niger nasce dai monti Loma, al confine tra la Sierra Leone e la Guinea a meno di trecento chilometri dal mare. E ce ne mette più di quattromila per raggiungerlo. Con le sorgenti ad appena mille metri di quota e quattromila chilometri di corso, è un fiume lentissimo, se buttate in acqua un turacciolo alla sorgente e andate ad aspettarlo alla foce vi tocca star lì più di sei mesi. Quasi non ce la fa ad arrivarci, rischia d’estinguersi prima.
I monti Loma sono un’appendice meridionale del Fouta Djalon, i primi rilevi che i venti atlantici incontrino entrando nel continente. I francesi lo chiamano lo chateau d’eau, il castello d’acqua, per l’intensità delle piogge e la frequenza delle sorgenti. È un bel territorio, un altopiano verdeggiante e fertile, territorio peul, razza di pastori. Da lì nascono tutti i grandi fiumi della regione: il Senegal, il Gambia e il Niger. Ma mentre il Senegal e il Gambia trovano rapidamente la loro strada, verso nord-ovest, e dopo un corso regolare raggiungono la meta, il Niger imbocca subito la strada sbagliata. Va a nord-est, e poi tiene ostinatamente quella direzione. E naturalmente non ha nessuna possibilità di raggiungere il mare, perché da quella parte c’è un ostacolo insormontabile: il Sahara. Tuttavia il Niger prosegue testardo, penetra sempre più nell’interno, allontanandosi dalla costa, fin oltre Bamako. Affronta territori sempre più aridi, dove non piove mai, si indebolisce fin quasi a perdersi tra le paludi di Mopti, formando un delta interno che rischia di dissolversi nel Sahara. Arriva stremato a Tombouctou, in pieno deserto.
È qui, all’incirca a metà del suo corso, che finalmente si arrende e cambia idea. Ecco il Niger che piega in un grande arco verso est, un grande, magnifico arco. Lambisce Gao e poi Niamey, verso sud, entra nella Nigeria del nord e quindi in territori meno aridi, riprende forza nelle piovosissime pianure della Nigeria del sud, dove si unisce a un compagno, il Benue, suo principale affluente, trasformandosi nel poderoso gigante che investe il Golfo di Guinea con un delta grande quanto la Sicilia. Fine della storia.
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Kuhn imboccò il Niger a Port Harcourt. Attraversò le paludi salmastre del delta, quel dedalo inestricabile di rami fluviali e anse palustri, lagune fangose, isolotti affogati nella jungla di mangrovie, popolati di villaggi su palafitte – che una volta erano di pescatori, e dopo la scoperta del petrolio divennero le basi della piccola pirateria costiera e territoriale delle communities nonché della rivolta politica e della guerriglia del MEND – in un ambiente quasi altrettanto inospitale e inadatto alla vita umana quanto il deserto, avvolto da un’aria irrespirabile e sottomesso a un cielo perennemente grigio, opaco d’umidità per il vapor d’acqua e il calore.
Risalì il basso corso del fiume fino a Lokoja e alla famosa confluenza col Benue, quella “Y” fluviale che dopo l’indipendenza divenne il simbolo della nazione e campeggia sulla bandiera della Repubblica Federale di Nigeria. E’ uno spettacolo grandioso il congiungimento dei due grandi fiumi, uno di quegli allestimenti scenici della natura così potenti e carichi di metafore, che non hanno mai mancato di affascinare la fantasia dei viaggiatori. Possiamo pensare che scalfirono anche l’animo esacerbato di Kuhn, forse vi risvegliarono qualche speranza.
I battelli fluviali risalivano il corso del ramo occidentale trasportando nell’interno prodotti della tecnologia industriale europea sbarcati a Port Harcourt, e lo discendevano carichi di cotone, arachidi, prodotti agricoli delle regioni interne, e di zebù delle grandi mandrie allevate dalle famiglie nomadi fulane e rivendute nei mercati del bestiame di Minna, Mokwa o Yelwa dai mercanti musulmani del nord, gli alhaji di Kaduna o di Sokoto. In una delle soste di quei battelli, – durante la stagione delle piogge il Niger era navigabile per un ampio tratto del suo basso corso, non era interrotto dalle due grandi dighe di Jebba e Kainji, che oggi producono gran parte dell’energia idroelettrica nigeriana, poteva essere risalito fino a Niamey – sulla banchina del porto fluviale di Gaya, Kuhn fece un incontro.
L’emiro di Gusau era venuto di persona a vendere e imbarcare il bestiame che aveva raccolto acquistando un po’ alla volta i capi dalle famiglie fulane che transitavano per il Sokoto State. Alla fine della stagione delle piogge i nomadi fulani portavano le mandrie dalle zone di pascolo a Sokoto, Gusau, Maradi e gli altri centri di raccolta, dove le vendevano ai ricchi alhaji, i mercanti musulmani che controllavano il commercio del Sahel.
L’emiro di Gusau era uno di loro. A Kuhn fece probabilmente impressione il fasto di queste antiche corti musulmane: l’interminabile seguito di dignitari che scortava l’emiro, lo splendore dei boubou, i loro costumi – candido, certamente, quello dell’emiro; colorati di rosso, amaranto, giallo, verde, quelli dei dei dignitari – la reverenza e sottomissione con cui i popolani s’inginocchiavano e baciavano le mani all’emiro e il sussiego del corteo di capi musulmani che fendeva la folla. Tutto questo probabilmente non mancò di esercitare su Kuhn la sua attrazione, sappiamo che era sensibile al fascino del rango.
Ma anche l’emiro, da parte sua, dovette notare Kuhn. Certo, sarebbe stato difficile non farlo, unico bianco in quel mercato di vacche, in mezzo a centinaia di neri, macilento, povero e randagio sulla banchina di un luogo così inappropriato.
Col consenso delle principali famiglie musulmane e delle autorità tradizionali che governavano il Sokoto State, Dieter Kuhn fondò una minuscola azienda agricola poco a sud di un villaggio denominato Goronyo.
Estremo nord del Paese, un corso d’acqua minore del bacino del Niger. Non c’è nessuna ragione tecnica che giustifichi la scelta di Kuhn. Siamo ormai in pieno Sahel, manca poco al deserto. Durante i mesi invernali dal nord soffia l’harmattan e riempie l’aria di polvere. Polvere sottilissima, che stende sul paese una nebbia aspra e secca, mortale per l’agricoltura. Piove poco e impetuosamente solo nei mesi estivi. Per tutto il resto dell’anno non cade una goccia d’acqua. Sia il clima che la natura del territorio sono contrari all’agricoltura. Dopo aver attraversato, lungo il Niger, territori molto più fertili e adatti a impiantarvi delle coltivazioni, non ha molto senso che Kuhn abbia deciso di fermarsi qui.
Oltre che un ricco mercante, l’emiro di Gusau era il più importante capo feudale della provincia, consanguineo diretto del sultano di Sokoto, tuttora massima autorità religiosa e influente personalità politica della Nigeria contemporanea. L’emiro dominava il territorio attraverso i suoi familiari e dignitari, che risiedevano in un’immensa e primitiva corte a Goronyo, suo villaggio d’origine. Di lì la sua autorità si diramava via via verso i centri minori e le campagne, dove i capitribù, i capivillaggio, i capifamiglia e tutto l’insieme di consigli di anziani e sages femmes riconoscevano la sua autorità e in suo nome amministravano la vita collettiva delle comunità haussa, di fede islamica, che popolavano il territorio.
Non fu dunque una scelta dettata da ragioni tecniche. Se mai politiche. Dopo questo, non è strano che Kuhn abbia ricominciato a fare dell’agricoltura nel luogo meno indicato. Occuparsi di piantagioni, organizzare il lavoro nei campi, era l’unica cosa che sapeva fare. Al termine della sua vita nomade – dopo aver vagato prima entro i confini della Germania e dell’Europa post-belliche, quindi attraverso l’Atlantico e lungo il Niger – una volta fermatosi, tornato stanziale, riprese a farla.
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Superando non poche difficoltà, Kuhn allestì un perimetro pilota, come venne chiamato allora. Il perimetro Kuhn fu il prototipo di uno di quei centri sperimentali che andarono di moda ed ebbero anche un certo successo una cinquantina d’anni fa, e si fondano su un ragionamento elementare. Le piogge nel Sahel sono concentrate in pochi mesi, durante i quali portano più danno che vantaggio, perché la violenza incontrollata dell’acqua erode il territorio, disseminandovi malsani acquitrini che diventano focolai di malaria. Dopodiché, per molti mesi non piove più, e tutto inaridisce e dissecca. Per avere la possibilità di impiantare delle coltivazioni, la prima cosa da fare è regolare e stabilizzare le scorte d’acqua.
Quindi la fase iniziale dell’attività di Kuhn fu ingegneristica. Col consenso e la protezione delle famiglie nobili che controllavano il territorio, poté costruire un modesto sistema di dighette – di barrages collinaires – su corsi d’acqua minori a carattere stagionale. Lavorò con manodopera interamente locale, messagli a disposizione dai capivillaggio, a loro volta istruiti dalle autorità tribali e dai dignitari dell’emiro. I nuovi padroni avevano la pelle scurissima, erano musulmani, vestivano molto diversamente dai vecchi e avevano usi e costumi lontanissimi dai loro, ma a Kuhn questo non interessava.
Costituita in tal modo la sua provvista d’acqua, Kuhn costruì una piccola rete di canali regolati da chiuse a mano, e attorno ai canali cominciò a coltivare dei campi. Per riuscire a far tutto questo, dovette innestare gradualmente la disciplina e la sistematicità del lavoro organizzato – scandito da orari, governato da regole, imperniato sulla suddivisione dei compiti e soggetto alla gerarchia del lavoro – nella primitiva gerarchia tribale e feudale che governava i villaggi.
Kuhn fu abile nello sfruttare a proprio vantaggio la natura piramidale quell’ordinamento, il potere dei capivillaggio, dei marabut, dei consigli di anziani e sages femmes. Adattò l’organizzazione del lavoro industriale alle regole che governavano quella comunità. L’astuzia e alla fine il successo con cui condusse questa contaminazione, non credo siano dovuti ad alcun lungimirante disegno, ma unicamente alla natura gretta e utilitaria dell’uomo. Una sola cosa importava a Kuhn: fare dell’agricoltura ben fatta.
Nell’arco di un decennio il perimetro si sviluppò, fino a comprendere una dozzina di sbarramenti, diversi chilometri di canali e un migliaio d’ettari di campi irrigui. Esisteva una sorta di base operativa al centro del perimetro, con laboratori, depositi di sementi e attrezzature agricole. Un’officina, un osservatorio climatico, una scuola rurale e una moschea. Il perimetro Kuhn ricevette modesti finanziamenti inglesi e francesi alla fine degli anni Cinquanta. Vi lavorava un gruppo di tecnici indigeni reclutati nella regione e istruiti un po’ alla volta da Kuhn. Un migliaio di contadini coltivavano i campi utilizzando tecniche basilari e mezzi rudimentali, seguendo i metodi di coltivazione, i cicli di rotazione delle colture e i programmi di semina, irrigazione e raccolto studiati e messi a punto dall’agronomo. Il perimetro pilota disponeva in tutto di un paio di vecchi trattori, qualche pompa e poco altro. Non sempre c’era carburante sufficiente a far funzionare i trattori e allora i contadini tornavano al lavoro manuale e alla trazione animale.
Nel perimetro pilota c’era una scuola. All’alba decine di ragazzini scalzi marciavano in fila indiana lungo i sentieri che dai villaggi sparsi in mezzo al bush convergevano sul perimetro Kuhn. Studiavano in grandi aule di mattoni e lamiera, completamente vuote ad eccezione di una lavagna rettangolare sulla parete di fondo e di panche di legno grezzo per sedersi. I programmi di studio erano concordati dall’agronomo coi maestri che vivevano nell’azienda. Si studiava principalmente grammatica, aritmetica, geometria e scienze naturali, su vecchi libri di testo francesi e tedeschi di proprietà di Kuhn. Terminate le lezioni, i maestri radunavano gli alunni sul piazzale antistante la moschea e li facevano cantare. Poco prima del tramonto i contadini tornavano dal lavoro. Riponevano nei depositi gli attrezzi, si lavavano nei bagni comuni della base e prima che facesse buio riprendevano la strada dei villaggi, grappoli di poche decine di capanne sparse tutt’attorno nella pianura uniforme e desolata.
Il perimetro Kuhn conobbe un breve periodo di fioritura nei primi anni Sessanta, subito dopo l’indipendenza della Nigeria. Le famiglie dei contadini che vivevano nei villaggi in un raggio di più o meno venti chilometri – cioè la distanza-limite percorribile a piedi in un giorno – gravitavano tutte sull’azienda agricola di Kuhn. Era diventata un piccolo polo di aggregazione economica e sociale.
Dieter Kuhn credeva molto nel miglioramento della base alimentare della popolazione come premessa per lo sviluppo. Era venuto nel bush lasciandosi alle spalle un’esperienza dolorosa. Era una specie di monaco, un eremita, e seguendo quest’inclinazione vagamente visionaria aveva scelto come terra d’espiazione e d’esilio una delle regioni più aride del Sahel, un luogo inospitale dove viveva gente diversa da lui in tutto e con cui lui non avrebbe mai potuto avere nulla in comune.
Appena oltre il cancello d’ingresso aveva fatto incidere la frase di Feuerbach: “Se davvero governanti e filosofi hanno a cuore la salute morale del popolo, comincino a nutrirlo meglio: l’uomo è ciò che mangia.” Era scolpita in tedesco e in francese su una lastra di granito grigio. Tutti i suoi contadini parlavano solo haussa ed erano analfabeti, ma la frase non era rivolta a loro.
Kuhn era un uomo ostinato e seriamente convinto delle sue idee. Rimase per tutta la vita uno strenuo lavoratore, che dedicava al perimetro tutto il suo tempo e tutte le sue energie. Era rimasto intimamente anche un prussiano, sia pure di razza ebrea, convinto che un’organizzazione efficiente si basa su due cose: una gerarchia severa e capace e un’inflessibile disciplina. Ciò, congiuntamente ai suoi trascorsi, ne faceva un capo dispotico. All’interno del perimetro vigevano regole ferree, amministrate da Kuhn con l’antica durezza e intransigenza.
Tutto questo durò una ventina d’anni. Il perimetro Kuhn fu un’esperienza abbastanza riuscita e divenne piuttosto noto nella regione. Quando finì, aveva sviluppato millecinquecento ettari coltivati con criterio. I campi di riso, mais, sorgo e arachidi del perimetro, precisi e squadrati come disegnati col righello, erano una razionale finestra verde nella desolazione incolta delle spianate predesertiche del Sokoto State. Nei dintorni del perimetro Kuhn non si soffriva la fame e quando, nel corso degli anni che seguirono, la regione attraversò due o tre cicli periodici di siccità, la popolazione che viveva attorno al perimetro se la cavò meglio, ebbe meno malnutrizione, meno poliomielite, un tasso inferiore di mortalità infantile, una minore incidenza di malattie causate dalla mancanza d’acqua e di cibo.
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Nel 1974 Dieter Kuhn s’ammalò e morì di febbre tifoidea e la fragile organizzazione del perimetro pilota si dissolse. I contadini saccheggiarono i depositi e nessuno più s’occupò delle chiuse. I laboratori, le officine e l’osservatorio climatico andarono in disuso. Delle tre aule della scuola rurale, una sola rimase in funzione. C’era ancora un maestro del bush che viveva nelle baracche del perimetro, senza percepire stipendio e campando con quello che riceveva dalle famiglie dei contadini. Nelle altre due aule i tetti erano sfondati e vento e intemperie diroccavano i muri. I contadini avevano divelto le lamiere e le avevano usate per le loro capanne. Negli angoli erano ammonticchiati rifiuti ed escrementi e sui muri si allungavano le lingue nere dei fuochi dei bivacchi.
L’agronomo era stato seppellito all’interno del perimetro. Poco oltre il cancello arrugginito, tra i cespugli rinsecchiti, spuntava ancora la lastra di granito con la frase che s’era scelto.
Negli anni Ottanta il governo dell’indipendente Repubblica Federale di Nigeria decise di costruire a Goronyo una diga destinata ad uso irriguo. Il fatto che abbia deciso di farla proprio lì, lascia pensare che l’opera sia in qualche modo un lascito di Kuhn. Ma nei dossier tecnici non è mai menzionato il suo nome. Non figura in nessuna pagina della documentazione di contratto, né sui disegni, né sugli studi di avan-progetto e di fattibilità, né in modo esplicito né vagamente evocato, nemmeno come lontano progenitore del progetto, come esperienza tecnica preparatoria all’opera maggiore. In genere, nella sezione descrittiva del background di un’opera, questi antefatti sono richiamati. Questo porta a pensare che il nome di Kuhn sia stato volutamente censurato.
Il progetto fu finanziato dal budget nazionale del Sokoto State, non da quello federale della Nigeria. Sul budget dello stato, la famiglia del sultano e i suoi emiri avevano un’influenza ben maggiore che su quello federale della nazione, deciso a Lagos. Quindi la diga di Goronyo fu un progetto fortemente voluto dall’autorità del territorio. Benché si trattase di un’infrastruttura regionale, fu bandita una gara d’appalto internazionale e se l’aggiudicò un’impresa italiana.
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Quando arrivammo a Goronyo, nel 1984, una piccola parte dei canali del perimetro pilota era ancora in funzione e qualche pezzetto di campagna era coltivato secondo i suoi metodi. Dall’alto della strada si riconoscevano le tracce di quelli che erano stati un tempo campi scientificamente lavorati, piccoli appezzamenti di un verde intenso, residui di opera umana nell’uniforme distesa arida e inselvatichita. Lungo i sentieri circolavano carretti trainati da somari. C’erano delle donne nei pressi del cancello d’ingresso e ragazzini nudi che facevano il bagno negli stagni semiprosciugati dei barrages collinaires. Si notava ancora una certa circolazione di uomini e animali e qualche residuo di attività commerciale nei dintorni del perimetro. Oltre al maestro che teneva aperta la scuola, alcune famiglie di contadini s’erano trasferite nelle baracche e del bestiame pascolava brado nel recinto invaso dalla sabbia e da cespugliame spinoso.
La diga di Goronyo fu completata nel 1989. Negli anni successivi ebbe i suoi alti e bassi. Modificò e sviluppò il territorio, e per qualche tempo svolse abbastanza bene il compito che le era stato assegnato. Poi vi fu un’inondazione e una parte della diga cedette. Vi furono dei morti. Seguirono scambi d’accuse, molte polemiche e un processo. Quando anche questo fu concluso, l’opera fu riparata e sviluppò nuovamente dell’agricoltura.
Mi pare naturale che la diga di Goronyo sia dedicata alla memoria di Dieter Kuhn.
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Le immagini del Sahel che illustrano il racconto sono di Sebastiao Salgado