A proposito di "Processo al nuovo"
Siamo tutti Nuovi?
La politica insegue il presente e annuncia continuamente di volerlo interpretare in modo "nuovo" e così nascono realtà senza progetto, senza passato e senza identità. È la tesi di un saggio di Marco Damilano
Ognuno crea i propri miti, questi si consolidano e scardinarli poi diventa impresa da giganti, forse impraticabile. Quello che è stato confezionato nel nostro recente passato/presente ha le sembianze di un mostro, che rivela un volto ed è nella sostanza l’esatto opposto di quanto appare. Questo reliquiario dinanzi al quale viene a tutti chiesto di prostrarsi si chiama “nuovo” e a ben guardarlo è tutto tranne che questo, “nuovo” appunto. La sua triste marcescenza ci appesta e rischiamo di venirne soffocati. A denudare questo totem ci pensa un libro da poco pubblicato da Laterza: «Processo al nuovo», scritto, a partire da un articolo uscito sul suo giornale il 31 dicembre 2016, dal giornalista de “L’Espresso” Marco Damilano, il quale, fin dal titolo, dichiara la bestemmia indicibile, per aver pronunciato la quale si dev’essere disposti ad essere sottoposti a processo, sapendo che il verdetto sarà di condanna: perché non c’è nessuno disposto ad ammettere che non c’è bisogno di “nuovo”, di più, che ricercalo è vano, oltre che deleterio.
Nessuno è disposto a riconoscere che dietro questa parola si celi il vecchiume e la deliberata volontà di conservarlo, rinunciando appunto a qualcosa di “vecchio” che sia finalmente “nuovo”. Il “mito del nuovo”, spiega Damilano, ha imperversato trasversalmente nella politica italiana in un arco temporale superiore al ventennio: dagli anni dello sdoganamento della destra da parte del nuovismo berlusconiano – che ha alle spalle le risolute imprese di Craxi all’interno del Partito socialista nella seconda metà degli anni ’70 – fino alle suggestioni rottamatrici del renzismo negli ultimissimi anni o alle aspettative di sapore messianico del Movimento 5 stelle.
L’inconsistenza del “nuovo” in politica, così come lo si è conosciuto in Italia negli ultimi 25 anni, non è data solo dalla constatazione che tutti i propositi di “novità” – a destra, a sinistra, al centro, fino alle contemporanee forme movimentiste di opposizione – sono stati miseramente disattesi dai fatti. È data, di più, dalla natura stessa di quanti – leader, gruppi dirigenti, apparti partitici in genere – hanno privilegiato la preoccupazione di apparire “nuovi” allo scrupolo di avere un progetto politico reale, perseguibile anche a costo di non vederlo realizzato, compiuto, vincente, per così dire “minoritario”, destinato cioè all’opposizione anziché alla maggioranza, al governo, al potere, ma identificabile, riconoscibile, chiaro, coerente e nel quale potersi appunto identificare. Al posto del “pro-getto” – la cui essenza, come chiaramente rivela la parola, è quella di “gettarsi in avanti”, e pertanto presupporre sempre un coraggio verso il futuro, la tensione verso l’imprevedibile, una visione coerentemente abbracciabile a prescindere dagli esiti immediati e del quale si sono sempre nutriti i partiti – si è preferito cavalcare le infatuazioni di massa del momento, con una palmare propensione all’annuncio trionfalistico, allo slogan vincente, alla trovata opportunistica, sempre sotto l’immancabile custodia del carisma del Conducător.
Questa sostituzione ha finito per delegittimare e rendere inaffidabile prima la credibilità del progetto politico – la quale comporta appunto anche il metterne in conto il fallimento, ma in un modo coerente, che non comporti l’abbandono della nave al momento della scoperta di falle che potrebbero segnarne l’affondamento –, poi la dimensione stessa della politica, il suo spazio di operabilità, la sua ineluttabilità data dalla coesistenza di tanti individui in un unico spazio condiviso. E ha finito per restringere gli orizzonti temporali del proprio impegno, delle proprie passioni, delle proprie volontà, dei propri desideri, costringendoli in un immediato presente al quale sembra impossibile sottrarsi quasi che un destino ci condanni in quel “presente” nel quale regna un’apocalittica immodificabilità del corso delle cose, quasi fosse un vaticinio riscontrabile nel “Qoelet” del vecchio testamento.
L’eccesso di “presente” nella politica italiana emerge chiaramente dalla compulsione dei leader ad accaparrarsi, in una spasmodica rincorsa senza fine, dei temi “del momento”, a commentare, spesso con goffe competizioni pseudo-ideologiche, l’affare del giorno: è la sindrome della dichiarazione, l’ansia del post, l’affanno del comunicato stampa, dinanzi ai quali il progetto o gli stessi cavalli di battaglia della campagna elettorale si assottigliano sempre più fino a svanire del tutto.
La mescolanza di questo oblio del progetto – che connotava i partiti, differenziandoli tra loro appunto per le loro legittimamente diverse visioni – con la personalizzazione della politica ha sepolto il partito, buttando via con l’acqua sporca dell’organizzazione collettiva, il bambino del suo “prender parte”, schierarsi, “partigianeggiare” a vantaggio del battibecco, delle urla e degli insulti non del capire da che parte si sta. Il modello del “non-partito” che ne è scaturito non solo non ha organizzazione, non solo non aggrega e non coinvolge, ma non si schiera, non rappresenta una parte della società, non identifica chi vi appartiene o lo sostiene.
Ne deriva un soggetto talmente trasversale e privo di progetto che pretenderebbe di assorbire tutti gli attori della società, capace di presentarsi e raffigurarsi come “partito unico”, produttore di un “pensiero unico”.
Il fatto poi che non sia la sede dove risiede, il luogo dove ci si riunisce, la bandiera che ha scelto, il nome che si è dato a renderlo riconoscibile, ma il leader che lo guida – costretto ormai a dare appunto l’impressione di essere un innovatore – fa di questo “non-partito” una propaggine del capo, il quale, spiega bene Damilano, si è cannibalizzato la culla che lo ha partorito. Sotto questo profilo, lo sguardo del giornalista si allarga oltre i confini nazionali, per gettare un cono di luce sui vari Macron (veri, presunti o mediaticamente invocati) di turno, chiamati all’adunata ecumenica per evitare il peggio che incombe.
Tutto questo mette in evidenza il nullismo del “nuovo”, di cui già Raffaele Simone si era in qualche misura occupato nel suo «Il mostro mite. Perché l’Europa non va a sinistra», edito da Garzanti nel 2008, e scardina quell’auspicata analisi della società italiana fatta da Michele Serra nel lontano 1989, all’indomani del crollo del muro di Berlino, con il suo libro «Il nuovo che avanza», edito da Feltrinelli. Il quadro che ne emerge è quello di un immobilismo che è, di fatto, esattamente l’opposto di quanto annunciato dal “nuovo” in politica.
Il libro di Damilano non ha la pretesa di essere originale e proprio per questo appare credibile nella sua garbata intonazione polemica, rifuggendo dal vizietto narcisistico di non pochi intellettuali di essere sbalorditivamente unici nelle loro analisi. Né suggerisce un’alternativa risolutrice alla deriva in esso denunciata, piuttosto analizza lo stato di fatto, le sabbie mobili in cui ci si è impantanati. Un’operazione intellettuale che, dunque, si fa forte della memoria lucida del passato e della volontà di riannodarne pazientemente le trame, usando la premura (non scontata in libri dello stesso genere) di usare una bibliografia di prim’ordine, nella quale spicca la presenza anche di alcuni diari di Giulio Andreotti, campione insuperato in questioni di conservazione del potere.
Il libro smaschera dunque l’inconsistenza di alcune suggestioni della politica contemporanea. Quanto basta per prenderne consapevolezza, per staccarsi dal mito, per non trincerarsi dietro a un luogo comune, quello del “nuovo” e dell’“innovazione”, che fa più danni di quanti rimedi proponga. Esserne consapevoli è già un punto di partenza. Magari per invecchiare e divenire più saggi.
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