Itinerari per un giorno di festa
Una Cartiera d’arte
Visita guidata alla Cartiera Latina nel Parco Regionale dell’Appia Antica a Roma: un luogo dove artigianato, cultura e storia convivono come in un'isola felice
Il mito e l’artigianato, l’archeologia romana e quella industriale. Convivono in uno squarcio del Parco Regionale dell’Appia Antica, in quella Cartiera Latina che tra i pini della Caffarella mostra i suoi capannoni col tetto spiovente e il soffitto a capriate, nonché i macchinari attivi fino al 1986. A riaccendere i riflettori sulla Cartiera, riadattata a spazio espositivo nel 1998, sono dunque le mostre che vi si installano. In questi giorni, e fino al 29 luglio, una quanto mai suggestiva: dipinti e incisioni che illustrano la Regina Viarum e il fascino suscitato presso i viaggiatori del Gran Tour.
Lunga vita piena di avventure, quella del posto dove sorgono gli spartani edifici della Cartiera. Ma una “destinazione d’uso” coerente spalmata su diciotto secoli di storia. L’elemento che ha dettato le scelte di utilizzo del sito è stato da sempre il fiume Almone. Ora non lo vediamo quasi più, perché fu interrato nel Ventennio, a favorire l’urbanistica della via Imperiale, diventata la Cristoforo Colombo. Ma il corso d’acqua, a ridosso delle Mura Aureliane e parallelo alla Cartiera, nel secondo secolo dopo Cristo cominciò ad essere considerato sacro dai Romani. Perché, nel punto in cui si gettava nel Tevere (all’altezza grossomodo del Gazometro) naufragò la nave che portava dall’Oriente la statua di Cibele: l’avevano rubata i sacerdoti del tempio dedicato alla dea sul Palatino, convinti dai Libri Sibillini, secondo i quali – documenta Simone Perrotti nel bel catalogo dedicato alla mostra in corso – la Caput Mundi si sarebbe salvata da qualsiasi invasore se appunto Cibele si fosse trasferita dall’Asia a Roma. Il naufragio che affondò con l’imbarcazione anche il simulacro crisoelefantino della divinità non scoraggiò l’Urbs. Se ne realizzò un copia e l’aura di sacralità crebbe con l’istituzione del rito della Lavatio Matri, fissato per il 27 marzo di ogni anno e durato fino al 375 dopo Cristo: la statua di Cibele, simbolo della forza della Natura, veniva immersa nell’Almone, quasi a voler maggiorare il suo vigore nei gorghi dove proprio l’immagine originale era scomparsa. Ebbene, nel punto esatto della cerimonia, proprio là dove l’Almone scavalca l’Appia Antica, si svilupperà nel Medioevo una fiorente attività artigianale e poi la Cartiera. Mentre i rivoli del fiume – generando una marrana – stabilivano il toponimo della località, Acquataccia (travisato da Appia), la loro consistente presenza favoriva la nascita di folloniche, laboratori nei quali si lavava la lana per infeltrirla (follus è il lavandaio): insomma, nell’Agro Romano schiere di operai s’affaticavano immergendo i panni nell’Almone o in tinozze riempite d’acqua fino all’orlo. Le folloniche diventarono “valche” nel Quattrocento (“dal longobardo walken, rotolare”, suggerisce Perrotti) e disseminarono tutto il territorio tra Appia e Cristoforo Colombo. Specie due secoli dopo, quando vi si mondavano tessuti e materassi toccati dai corpi degli appestati nell’epidemia del 1656.
L’officina dell’Acquataccio venne alienata da una famiglia di duchi, i Rignano, a un imprenditore modenese, che ne concesse l’uso ai Cappuccini del convento di via Veneto, che vi “valcavano” le loro lane. Dalle pezze alla carta il passo non fu lungo, a inizio del Settecento. E infatti la Cartiera utilizzava come materia prima non la cellulosa, ma gli stracci. Un’attività fiorente, che la prepose alle manifatture di Fabriano: dall’opificio, acquistato a inizio Novecento dal principe Giuseppe Borghese e nel 1931 da un esperto cartaio di Sassoferrato, uscivano fogli per le sigarette e per gli incarti dei salumieri, per le veline e per la carta vetrata, millimetrati e adatti all’arte dell’incisione. Sessanta le maestranze impiegate e tra di loro anche bambini, adatti, con le piccole mani, a far funzionare al meglio i complicati ingranaggi. In definitiva, un pezzo di Roma verace riunita in una comunità operosa: nella quale finì anche, imberbe lavoratore, Claudio Villa.
L’Almone, insomma, aveva dato prosperità per secoli, secondo gli auspici, chissà?, dei fedeli a Cibele. Ma anche il contrario: il boom industriale inquinò le sue acque al punto che diminuì la qualità della carta prodotta. Fu l’inarrestabile declino della Cartiera Latina, chiusa nel 1986 e progressivamente decaduta. Il restauro e la conversione in centro cultura – per conferenze ed esposizioni – l’ha restituita ai romani ma la sua storia suona sconosciuta ai più.
Eppure anche da qui passarono gli artisti e gli intellettuali del Romanticismo stregati dalla Regina Viarum e selezionati da Renato Mammucari, curatore della mostra. Nomi nobili, da Goethe al Tischbein che lo immortalò sullo sfondo della Tomba di Cecilia Metella, da Piranesi a Corot. Ma anche appassionati meno noti. Come l’esemplare Carlo Labruzzi, vissuto dal 1748 al 1817. Un tipico esponente della pittura en plein air, dopo la formazione all’Accademia di San Luca. Romano, compì il personale Grand Tour proprio sull’Appia, finanziato da un facoltoso inglese, sir Richard Colt Hoare. Con lui voleva arrivare fino a Brindisi, replicando le tappe che Orazio aveva effettuato con Mecenate e Cocceio. Ma maltempo e salute traballante lo obbligarono a interrompere il viaggio a Benevento. Tuttavia Labruzzi disegnò incessantemente e poi elaborò acqueforti ed acquetinte, “fotografando” l’Appia da Porta Capena, con lo sfondo dell’Arco di Costantino, al Castellaccio tra Genzano e Velletri, da una Camera Sepolcrale incontrata sulla destra del percorso alle Paludi Pontine… Dando alle sue incisioni lo spazio che meritano, la Cartiera Latina – sorta a fianco di una marrana – rende omaggio anche a lui.