Pier Mario Fasanotti
A proposito di “Sillabario dei malintesi”

Il mondo di Merlo

Il celebre giornalista Francesco Merlo ha scritto un libro che spazia dal «dizionario dei luoghi comuni» al catalogo dei cretini. Un modo intelligente (e dolente) per capire la contemporaneità

La figura del cretino è universale, intramontabile, e attraversa millenni di storia. Personalmente, ricordo quanto rispose Charles De Gaulle a un ministro proponeva di fare qualcosa contro l’idiozia: «Operazione troppo vasta». E oggi? La cretineria è vivace e invasiva quanto mai. Questo è uno dei tanti temi toccati, con prosa elegante e argutissima, da Francesco Merlo, giornalista e scrittore, nel libro edito da Marsilio e titolato Sillabario dei malintesi (415 pag., 20 euro). Impossibile, per ragioni di spazio, condensare in questa colonna tutti i colpi di fioretto, arma preferita dall’autore. Meglio procedere a capitoletti.

Asineria. Parrà strano, ma «è l’intelligenza l’arma micidiale del cretino», noioso ripetitore di luoghi comuni tipo «siamo i soliti italiani». Viviamo in una gran folla degli ignoranti esperti di tutto e di niente. Siamo dinanzi, come sostiene un docente americano, «alla morte delle competenze, agli spiegatori ignoranti». Scrive l’autore che l’asineria saputa e arrogante sta così sconfiggendo la conoscenza specialistica discreta. Già Leonardo Sciascia aveva avvertito che «ormai è difficile incontrare un cretino che non sia il cretino genuino, integrale; il cretino-cretino esiste solo nella patologia, nell’insufficienza tiroidea per esempio, e va curato come tutti i malati, protetto come un fratello sfortunato». Il soggetto di cui andiamo a parlare ama ovviamente mitragliare il prossimo con parole e frasi inglesi. Quel che fa orrore è che i cretini sono arrivati al potere. Anche, o soprattutto, negli Usa. Pensiamo al presidente Donald Trump. Sempre Sciascia affermava che i cretini non sono più solo di destra. Il cretino di sinistra esiste eccome, «ben mimetizzato nel discorso intelligente».

Il processo. La parola porta inevitabilmente a ricordare Franz Kafka. Accantoniamo lo scrittore praghese, nei cui dipinti letterari poneva al centro la burocrazia. Di processi ne ha scritto molto Pier Paolo Pasolini, in forma di metafora. In modo più realistico, si fa per dire, vi si appella con emozioni biliose e grottesche (quindi siamo noi giornalisti in attesa di blog-sentenze) Beppe Grillo. Se Pasolini «aggredì la storia e la cronaca», il leader dei pentastellati è più spiccio, e più pericoloso, Grillo che addirittura si diverte a «parodiare pure il tribunale del Popolo delle Brigate rosse che uccisero Aldo Moro».

Real-casa. Tra le dinastie europee è indubbiamente la più imbarazzante quella italiana. Merlo afferma che «il giovane Emanuele Filiberto e i suoi genitori hanno persino peggiorato la già goffa tradizione di una famiglia che da più di 150 anni lavora contro se stessa». I Savoia, per citare Paul Valery, non hanno mai coniugato stile e nobiltà. Quei piemontesi, e gli italiani lo sanno bene, «non hanno mai vinto una battaglia nelle guerre d’Indipendenza se non al seguito dei francesi». L’autore aggiunge che «un referendum può cancellare una monarchia, ma non il bisogno di regalità». La necessità primaria di oggi non è tanto la regalità intesa in senso stretto – aggiungo io – quanto l’etica e la morale.

Silenzi. Francesco Merlo, anche perché è siciliano (nato a Catania), conosce bene vita e opere di Sciascia. Elvira Sellerio, molto amica del romanziere, sosteneva che sui silenzi di Sciascia si è sempre parlato a vanvera: «Era un gran conversatore». Sta di fatto che quando incontrò Enrico Berlinguer parlò pochissimo. Idem il capo del Pci. Un testimone raccontò: «In realtà non si parlarono, erano due timidezze che si guardavano, e forse pure conversavano, ma a modo loro. Il silenzio li univa e ogni tanto i sorrisi, che, esibiti, furono di simpatia e di calore». Quando nel maggio del ’77 i due si parlarono davvero, «ne venne fuori una doppia denuncia per calunnia». L’artista di Racalmuto riferì che Berlinguer gli aveva riferito che le Brigate Rosse avevano avuto contatti con i servizi segreti dell’Est. Il timido Enrico querelò Leonardo, che controquerelò. Renato Guttuso, presente al colloquio «tra il partito e la verità scelse il partito». Il magistrato archiviò tutto. Esempio di giustizia retta.

Identità. Merlo anni fa incontrò a Milano un negoziante che cercava di imbrogliarlo sul prezzo. Questi disse: «Proprio lei che è siciliano come me?». Il giornalista rispose gelidamente: «Io sono siciliano, ma non sono come lei». In effetti c’è l’ossessione della sicilianità o sicilitudine. Luoghi comuni e incomprensioni s’intrecciano. Scrive Merlo: «Non è vero che in Sicilia una finestra chiusa significa paura, che un uomo che ride è Liolà, che i cittadini che vogliono farsi i fatti propri sono per forza omertosi, che una donna vestita di nero a Catania è un sospetto di lutto o l’allegoria di una lupara, mentre a Parigi lancia un segnale sexy». Non è vero che tutti i delinquenti siano mafiosi, «non è vero che in Sicilia non c’è fondo senza sottofondo, vale a dire incomprensibile, e che tutto è confusamente pirandelliano, vale a dire incomprensibile». Spesso questa Sicilia separata è un’invenzione dei giornali e della musica (“Ciuri Ciuri“), una furbizia degli scrittori e un’arma della mafia. Tutto in quest’isola è negativo? Ma via! Basta avere sotto gli occhi il degrado di altre nazioni europee o dell’America! Su La Repubblica Merlo scrisse che «anche la casta a Palermo diventa più pittoresca e tragica: la casta con le sarde». Ci sono chiari e scuri, come dappertutto. Oltre il 60% dei beni culturali italiani è in Sicilia. Ma è anche vero che la Regione mantiene 1750 custodi (11 per sito contro i quattro della Toscana), che spesso gestiscono l’abbandono e il degrado. Selinunte è il più grande parco archeologico dell’Europa. Peccato che non lo si possa visitare nel pomeriggio. Peccato, anche, che i dipendenti regionali siano 29mila, più di quanti ne ha la Casa Bianca. Pagati oltretutto come i funzionari del Senato. Esiste indubbiamente «una paccottiglia sottoculturale sicilianosta, cui appartengono pure i pomodori e il basilico (u vasilicò) che va innaffiato di notte».

Parolacce. Alzi la mano chi osa negarlo. Viviamo nella stagione del turpiloquio, del tipo “cazzo-culo-merda”. E si limitasse a questo! «La parolaccia che scappa come un’emergenza è sempre esistita e può avere vita anche in tv, in politica, e pure nella forma della bestemmia». Nel 2009 fece scalpore l’allora presidente della Camera, Gianfranco Fini che, rivolto a una cinquantina di ragazzi immigrati, bengalesi e cinesi, disse: «Quelli che usano qualche parola di troppo nei confronti degli immigrati sono degli stronzi». Il filosofo Stefano Bonaga scrisse nella Semantica dello stronzo, la sua opera più famosa (ahimè), che «è molto più facile dire chi è uno stronzo di quanto non sia dire cos’è uno stronzo». Per la prima volta in radio, nel 1976, esclamò “cazzo !“. «Ora ci sono i social» osserva Merlo «che aggrediscono le libertà politiche e le libertà civili guastando la comunicazione, sporcano la lingua, diffondono l’insulto». Tullio De Mauro, grande linguista, fece notare, nel 2016, che «soltanto i testi accademici sono, almeno per ora, privi di male parole». Molti si compiacciono di usare la parolaccia. Merlo scrive che «crollano gli argini di un tempo». Mi chiedo: possibile tornare indietro? Non credo proprio.

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