A proposito di "Insperati incontri"
Elogio dell’errore
«Occorre tenere vivo l’umanesimo dell’errore. Credo che sia l’errore a produrre conoscenza. Chi ha parlato dell’energia dell’errore, ha colpito nel segno». Incontro con Silvio Perrella. A proposito di parole, città e poesia
Già dalla copertina realizzata da Maurizio Ceccato, si rivela lo spirito del nuovo libro di Silvio Perrella, Insperati incontri (Gaffi ed., 508 pagine, € 23,00): c’è un ombrello capovolto, quasi a voler riparare l’autore, raccogliendo la bellezza delle voci, dei suoni, delle immagini di intellettuali capitati nella sua vita d’improvviso…
Silvio Perrella, qual è la tua idea di bellezza e cosa significa oggi ricercarla attraverso l’arte?
Per me la bellezza nasce da una relazione: tra un luogo e un pensiero, tra una persona e una sua frase, tra una pietra e un filo d’erba… Credo che la bellezza nasca quando si stabilisce un’armonia. L’arte di oggi spesso teme la bellezza. A volte ha le sue ragioni. Altre esagera. È bella la bellezza? Chissà. Di certo ha a che fare con l’apparire e dunque con il tempo dentro un determinato spazio. È la luna che manda il suo riflesso metallico sul mare notturno. È la voce di chi confabula d’estate all’aria aperta. È una finestra scorticata dal tempo.
Nei tuoi incontri, la descrizione dei protagonisti è spesso accompagnata a quella del paesaggio (il belvedere di San Martino, i Miracoli, il Rione Sanità…). Raccontami della tua necessità di raccontare i personaggi anche attraverso i luoghi, il paesaggio.
Mi piacciono i paesaggi naturali. Ma ho una particolare propensione per quelli urbani. Sono un collezionista di città. Ho vissuto a fasi alterne in campagna e in città, e di entrambe ho provato a fare esperienza. Della città amo la possibilità di perdersi tra la gente. E mi piace camminare, anche senza un meta precisa. Camminare guardare e pensare.
La forma mista del tuo libro spazia dal racconto breve al reportage fino all’intervista e alla recensione. Come in un sillabario, a ogni lettera dell’alfabeto corrispondono infatti dei personaggi tra scrittori, critici, poeti, registi, attori. Perché questa scelta?
Il libro è nato quando è arrivata l’idea dell’alfabeto. Sceglierlo è stato un modo di ancorarsi a una regola esterna a me e a miei pensieri e ai possibili schemi. Poi ho pensato che l’io narrante – quell’io che sono io ma che è anche altro – va a bottega d’alfabeto. Incontro dopo incontro prova ad imparare. Si mette in ascolto. Si fa accompagnare per le strade della conoscenza. E “io” ed è anche “tu”. È polifonia.
Dal tuo incontro con Cesare Garboli si delinea un’immagine del critico ossessionato dall’idea che l’immaginazione potesse ostacolare il suo “naturalismo estremo”. In che modo l’immaginazione è funzionale alla rappresentazione della realtà?
Se non hai una visione, è difficile vedere qualcosa. Mi piacciono i visionari di ciò che c’è, quelle persone che sanno cogliere nel disordine del mondo una figura. Certo, si tratta di una figura mutevole e sempre a rischio di scomparsa. Un po’ come la passante di Baudelaire: appare, poi gira l’angolo e chissà dov’è finita. L’incontro non avviene. Oppure è avvenuto quando gli occhi si sono toccati per una piccola frazione di tempo. Nessuna speranza, tanta speranza. «Addii, fischi nel buio, cenni», come nella poesia di Montale e come nel titolo di un mio altro libro.
Non mancano le digressioni filosofiche sull’artificio nella scrittura con Raffaele La Capria e su quello che lui chiama «lo stile dell’anatra»: il minuzioso lavorio che viene fatto sott’acqua e che non appare in superficie; e ancora con Geno Pampaloni e la lezione sulla recensione il cui scopo, dice, «è di rovesciare il libro come un guanto, farne emergere il sottofondo». Tu spazi tra narrativa e saggio critico, come si interseca il lavoro di critico con quello di scrittore?
È un tutt’uno. Al centro c’è sempre un racconto d’idee e l’avventurosità del conoscere. Si finisce per ruotare attorno agli stessi temi. A volte pensi di aver scritto una frase che finalmente libera la giusta energia, e poi scopri che l’avevi già scritta molti anni prima. Sono per le scritture scorciate, per quelle scritture nelle quali tempo di esecuzione e tempo dei pensieri quasi coincidono. Forme brevi incorniciate in perimetri più ampi.
«Siamo entrambi collezionisti d’immagini, con la differenza che io provo a catturarle sia con una macchinetta fotografica sia facendo uso d’alfabeto e lui invece le crea quasi dal nulla» scrivi nelle prime righe del capitolo dedicato all’illustratore Lorenzo Mattotti. Nel 2015 hai pubblicato il libro illustrato Doppio scatto (Bompiani), qual è il tuo rapporto tra fotografia, immagini e scrittura?
Non aspiro ad essere un fotografo di professione. Uno scatto visivo parte perché “ho visto” qualcosa. E allora lo appunto nella buia memoria della macchinetta fotografica. È un appunto visivo. Passa il tempo e uno di questo appunti, nel riguardarli, chiede scrittura; chiede che lo scatto verbale gli si affianchi, che ne righi la superficie: riga di visione più riga di alfabeto. Il rapporto di cui mi chiedi credo che lo stabilisca la poesia. La poesia come forma di conoscenza e come strumento espressivo. La poesia portata nella prosa. La poesia come molto mondo in poco spazio. La poesia come scorcio e visione concentrata.
Racconti de «l’insperato ricongiungimento» alla figura di Giancarlo Siani: colpevole di «reato di scrittura». Paragoni la figura del giornalista a quella del minatore in un racconto di Johann Peter Hebel che, dopo aver salutato la fidanzata non farà più ritorno a casa ma morirà giù nella miniera e il suo corpo verrà ritrovato molti anni dopo perfettamente conservato dai grani di zolfo, poi riconosciuto dalla compagna oramai invecchiata. Siani è stato ucciso dalla camorra nel 1985. Quali sono i tuoi ricordi in merito alla vicenda?
La mia fidanzata abitava nei dintorni del luogo del delitto. Quella sera devo averla accompagnata a casa e ho “sentito” che era accaduto qualcosa di tragico. Lì, proprio lì, a pochi passi. La voce, la terribile voce, si è diffusa subito. Purtroppo non ho avuto la fortuna di conoscere Giancarlo. In seguito è come se lo avessi frequentato in un tempo asincrono attraverso suo fratello Paolo. Siamo amici e condividiamo la necessità che si faccia piazza pulita della camorra. Finché non ce saremo liberati, saremo malati. Sia il corpo sociale sia i nostri corpi individuali, per quanto si sia lontani dalle pratiche funebri delle mafie, sono infestati da questa malattia. Giancarlo Siani dimostra che le nostre comunità sono sia portatrici del virus sia del vaccino per sconfiggerlo.
Nel dialogo con Michele Prisco citi alcuni dei suoi romanzi come La provincia addormentata, La dama di piazza, Il pellicano di pietra in cui l’autore narra di personaggi di estrazione sociale borghese ma anche di realtà più popolari. Per alcuni anni della tua vita hai vissuto ai Camaldoli, sulla linea di confine tra periferia e città. C’è ancora differenza tra queste due realtà?
Purtroppo sì. Anzi mi sembra che le differenze con gli anni si siano andate accentuando. Le “periferie” sono sempre più lasciate a se stesse e chi s’impegna – e sono molti – per rendere la vita quotidiana più decente, lo fa tra mille difficoltà. Ma bisogna aggiungere che anche molti quartieri del cosiddetto “centro” sono lasciati a se stessi. Ho un bel ricordo dei Camaldoli. C’erano alberi – soprattutto ciliegi e castagni, li descrivo nel dialogo dedicato a Oscar Wilde – e da lì si “vedevano” le stagioni, anche se mancava il rapporto con il mare. Purtroppo, quando ci torno, al posto degli alberi ci trovo case case case senza nessun ordine. Edifici che non fanno città. E so che altrove c’è anche di peggio. Riempire di cemento lo spazio significa togliere il respiro a chi ci vive. È un delitto, simile all’uccisione di una persona.
Ti interessi anche di poesia: hai organizzato la rassegna “Io e tu” con una serie di incontri dedicati alla poesia per il Napoli Teatro Festival e inoltre curi una rubrica su Il Mattino in cui ogni giorno scegli una poesia e la commenti. Nel libro ci sono alcuni capitoli dedicati a poeti come Amelia Rosselli, Michele Sovente, Fabrizia Ramondino, Patrizia Cavalli, Andrea Zanzotto. Qual è oggi l’importanza della voce individuale nella comunicazione di massa?
Più passano gli anni e più sento la poesia, come già dicevo prima, come una delle forme di conoscenza più in sintonia con i tempi. Sembrerà un’affermazione paradossale, visto che quasi nessuno compra libri di poesia. Eppure, quando la poesia la trovi dove non ti aspetteresti di trovarla, te ne nutri. È come la ciotola d’acqua pulita che Anna Maria Ortese consigliava di lasciare fuori dalla porta di casa. Può sempre servire ai viandanti, uomini o animali che siano. L’esercizio quotidiano del trascrivere versi e commentarli mi fa compagnia e scopro che ci sono lettori affezionati, e chiedono conto se non capiscono un verso e si appassionano quando la precisione espressiva e sentimentale di una poesia li tocca.
In questo libro hai raccontato di autori del Novecento, un secolo in cui la creatività e la ricerca si accompagnavano alla cultura umanistica. Cosa pensi dell’attuale “stato della creatività” degli artisti contemporanei e del loro rapporto con la ricerca?
Non ho idee precise. O forse non voglio averne. Quando meno te lo aspetti, ecco che scopri una persona o un’opera che ritieni degne. Tenere vivo l’umanesimo è cosa da non poco conto. Un umanesimo consapevole della propria fragilità. L’umanesimo dell’errore. Credo che sia l’errore a produrre conoscenza. Chi ha parlato dell’energia dell’errore, ha colpito nel segno. Sì, l’errore produce energia se ti è dato il tempo per individuarlo e per entrarci in relazione. Anche nell’ambito del linguaggio non facciamo altro che fraintenderci. Leggere e scrivere è un esercizio di continua approssimazione alla dicibilità. È, diceva Andrea Zanzotto, il poeta che chiude il mio libro, una fantasia di avvicinamento.