Danilo Maestosi
A proposito di "Eredità storica e democrazia"

Archeologia o spettacolo?

Carlo Pavolini, archeologo di lungo corso, dedica un bel saggio alla battaglia recente tra valore storico e conoscitivo dei monumenti e il loro uso spettacolare. Spesso assai spregiudicato, in linea con la politica del ministro Franceschini

Varcata la soglia della pensione, Carlo Pavolini, archeologo di lungo corso, una ventina d’anni a dirigere scavi e restauri per la soprintendenza di Roma, continua ad esplorare gli orizzonti della sua professione e le sue mutazioni con ammirevole spirito critico e impegno civile. Un lavoro di analisi concentrato sul complesso scenario di novità introdotte sotto la regia di Dario Franceschini nella gestione dei Beni culturali che ha preso corpo in un saggio appena pubblicato dalla casa editrice Scienze e Lettere: Eredità storica e democrazia, 314 pagine, 18 euro.

Il titolo è già un forte grido d’allarme, rafforzato dall’immagine cupa della copertina, una visione notturna di Pompei nel quale il chiarore lunare ritaglia il volto spettrale di una statua di Mitoraj. Da osservatore appassionato, Carlo Pavolini registra la direzione ondivaga e contraddittoria delle riforme che stanno cambiando volto e anima del Ministero dei Beni culturali, e vive lo spettacolo inquietante di due caposaldi della sua e della nostra cultura, il patrimonio del passato e i principi della democrazia, che precipitano e si sfarinano in una società che sembra annegare in un eterno presente di superficie la profondità della Storia. Ma l’autore reagisce immediatamente alla tentazione del pessimismo e impone a se stesso e alla sua scrittura una visione più distaccata e più meditata, convinto che urlare al lupo al lupo serva solo ad irrigidire le posizioni, che l’ascolto delle ragioni degli altri possa agevolare rimedi e vie d’uscita.

Certo, questo passo all’indietro dopo un passo avanti, questo assumere il ruolo anomalo di moderatore di se stesso raggela un po’ l’esposizione, ma il libro ha il merito di farci entrare dietro le quinte e tra le pieghe di quel singolare, opaco e non facilmente penetrabile teatrino di competenze e incompetenze, ambizioni personali e resistenze corporative, percorsi umani e scelte di forte impatto sociale che è il Ministero dei beni culturali.

L’idea di Carlo Pavolini è che l’assetto dell’intero settore andava comunque cambiato e adeguato ad una società più dinamica come quella di oggi. E che il punto di partenza della riforma Franceschini fosse giusto. Giusta la volontà di unificare sotto un’unica cabina di regia le competenze prima frantumate e divise tra varie soprintendenze, con una struttura a dipartimenti che avrebbe dovuto coinvolgere le varie professionalità, creare collaborazione dove la sovrapposizone creava complicazioni, conflitti, inerzie. Meno convincente però si è rivelato subito l’affidamento dei ruoli di comando: gli archeologi relegati ai margini e scavalcati dagli architetti, anche in Regioni dove il grosso del patrimonio da gestire e da tutelare riguardava tesori e siti archeologici E poi gli architetti e gli archeologi a loro volta superati nella divisione degli incarichi direttivi dagli storici d’arte, quando il secondo capitolo della riforma con la creazione dei poli museali e delle soprintendenze speciali ha praticamente dissolto ogni speranza di unificazione con un coinvolgimento massiccio e sproporzionato, secondo Pavolini, degli storici d’arte. E soprattutto con uno spezzatino di eccezioni e di regimi privilegiati concessi ad alcuni musei e ad alcune soprintendenze che registravano non a caso il maggior numero di presenze e di incassi. Creando scompensi e situazioni di squilibrio che alimentano forti preoccupazioni sul futuro di siti ingiustamente ritenuti minori, per i quali sarà difficile compensare l’assenza di fondi e attenzioni adeguate con il coinvolgimento di privati.

In prospettiva però la cosa che più preoccupa Carlo Pavolini è lo scorporo operato dalla riforma tra tutela e valorizzazione. Anche perché, sempre più, pure un moderato come lui non può che avanzare il timore che la politica del ministro e del governo, nella linea di concentrazione di poteri in mano all’esecutivo voluta da Renzi, nasconda la volontà di azzerare il potere di veto e di controllo delle soprintendenze, soprattutto di quelle archeologiche più di una volta entrate in rotta di collisione con le logiche spicce del decisionismo politico. Timore che si trasforma quasi in certezza per gli effetti della legge di riforma della Pubblica Amministrazione varata dal ministro Madia: l’automatismo e i tempi abbreviati del principio del silenzio-assenso e il potere eccessivo concesso in caso di conflitto o in sede di conferenza di servizi alle prefetture.

Tra gli ispiratori delle riforme Franceschini spicca la figura di Giuliano Volpe, archeologo pugliese che non a caso è stato chiamato dal ministro alla presidenza del consiglio superiore del Mibact. E con cui Pavolini dialoga ripetutamente nel suo saggio, condividendone alcune posizioni e contestandone altre. Volpe è stato anche, insieme all’urbanista Paolo Berdini, uno degli interlocutori scelti per la prima presentazione pubblica.

Nel dibattito, Volpe ha difeso con grande foga l’accelerazione imposta al cammino della riforma del Mibact. «Dopo tanti anni sprecati, bisognava imporre una svolta per evitare di rimanere di nuovo insabbiati. Bisognava cambiare e farlo il più in fretta possibile, senza aspettare miglioramenti di organico e metodi di aggiornamento culturale, perché il sistema delle vecchie soprintendenze faceva acqua. E stava screditandone l’immagine agli occhi degli utenti e dei non addetti. La gente non ne poteva più, troppe lentezze, troppi arbitrii nel gestire vincoli e licenze. La maggioranza del paese è dalla nostra parte». Curioso e scivoloso argomento. In linea col populismo e il neoliberismo che la politica ormai cavalca, da destra come da sinistra. A seguire quest’onda ogni intervento di tutela andrebbe cancellato in nome del fai da te.

Tanta, troppa fretta perché quasi sempre la fretta è cattiva consigliera. Dal suo osservatorio, Pavolini ne dà, magari sotto forma di domanda, numerosi esempi. Perché tante nomine a raffica modellate sulle carenze del personale in organico che impediscono di fatto il funzionamento dello schema a dipartimenti delle soprintendenze unificate? E attestate sulla impossibilità di suddividere in modo adeguato risorse e finanziamenti? E poi il tasto dolente della valorizzazione: perché nella logica del nuovo ministro il valore di scambio dei luoghi archeologici deve prevalere sul valore d’uso, perché separare molti musei archeologi dalle aree di scavo e ricerca sul territorio? «Arte e archeologia, più che conoscenza e crescita culturale devono produrre incassi. Le rovine archeologiche? Uno sfondo ideale per spettacoli e manifestazioni». È una battuta che Carlo Pavolini riprende da una dichiarazione di Franco Prosperetti, architetto e soprintendente dell’area archeologica centrale di Roma.

Lo stesso che qualche giorno fa – troppo tardi per registrare la sua voce sul libro –commentando lo scempio compiuto sulla terrazza di Vigna Barberini (un palco per un musical su Nerone grande come il Partenone e addossato a una chiesa), prima ha sostenuto di non aver notato questa devastante istallazione, poi incalzato dalle polemiche sulle difficoltà finanziarie dei produttori dello spettacolo, ne ha attribuito la responsabilità alle pressioni del ministero, sostenendo che « è buon costume» che un soprintendente si adegui alle intenzioni di un’autorità superiore. Vien da tremare a quello che potrebbe succedere al Colosseo quando verrà completata la copertura dell’arena e qualcuno si farà avanti a proporre un megaspettacolo di gladiatori. Può succedere e probabilmente succederà se le nomine che hanno fatto seguito alla riforma Franceschini valuteranno più che la competenza, le doti di acquiescenza dei funzionari. Costellando le decisioni più improvvisate del ministro in carica di clamorosi passi falsi. E invitabili bocciature come quella del Tar che ha annullato il colpo di mano con cui Franceschini, senza alcuna concertazione, istituiva il parco dei Fori, sfilandolo alle competenze della soprintendenza per l’area centrale ed entrando in rotta di collisione con il Campidoglio, titolare di buona parte dei monumenti in essa inclusi. Una forzatura ingiustificata cui del resto il Comune ha risposto con un’altra forzatura, il via libera agli scavi e alla demolizione di via Alessandrina, sulla quale la discussione tra gli esperti, faticosamente ripresa dopo un decennio di letargo, era ancora in atto. Per non parlare della Regione che ha dato un via libera sottobanco a un progetto di privati di trasformare in albergo extralusso il complesso di palazzo Rivaldi, ultimo lembo superstiste della collina Velia demolita da Mussolini e scrigno di preziosi affreschi tardo Rinascimento, indicato da un piano Benevolo-Scoppola degli anni ’80 come museo e anticamera d’accesso ai Fori.

Si tratta di decisioni sempre più svincolate dall’idea forte sul destino di questo prezioso cuore della Roma antica che aveva messo in moto la questione. Episodi di cui il saggio di Pavolini, che pure dedica l’ultimo capitolo alla complessa vicenda dei Fori non parla, perché successivi alla sua stesura. Ma che riflettono un clima culturale e una modalità d’approccio ai temi dell’archeologia chiaramente influenzati dai nuovi orientamenti al ribasso della politica e della gestione dell’eredità storica e della democrazia.

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