A Roma fino al 30 giugno
Gli anni Settanta in bianco e nero
Gli anni Settanta, tra politica, arte e società, nelle foto di Agnese De Donato. Un'occhio partecipe racconta gli azzardi delle Cantine teatrali e dell'impegno politico
Basta il titolo per comprendere la direzione della mostra dedicata alla fotografa Agnese De Donato, alla galleria De Crescenzo & Viesti di Roma fino al 30 giugno. Anni ’70, e siamo già tranquilli nel sapere di che tempi si parla – tranquilli noi tanto quanto turbolenti loro, gli Anni Settanta, tra crisi petrolifera e tensioni internazionali, trasgressioni e lotte per i diritti, maree e ondate artistiche senza precedenti. Gli Anni Settanta, dunque, immortalati dalla macchina fotografica di De Donato, presente però non già come semplice documentarista, memorialista, ma immersa lei stessa in quel decennio di bombe e di coriandoli. Ecco allora che il titolo continua recitando, con quella gioiosa e sempre legittima vanità che è la fierezza, Io c’ero. E sì che c’era, De Donato, davvero in prima linea, soprattutto per quel che riguarda femminismo e diritti delle donne.
Proprio questo infatti è uno dei binari, il primo, che la mostra, curata con intelligenza da Greta Boldorini (con la supervisione di De Donato stessa fino a che, lo scorso 5 marzo, non è venuta a mancare), fa percorrere allo spettatore. Le donne, il movimento femminista, romano e non solo, le lotte per la libertà d’aborto – sono questi i primi soggetti che ci si ritrova a osservare. Vediamo allora di spalle sette giovani donne immortalate durante l’inaugurazione della libreria “La Maddalena” (1973), una delle prime librerie femministe della capitale, oppure le copertine, scandalose e provocatorie, tra nudi e semi-nudi, del settimanale «di controinformazione al femminile» Effe, rivista fondata (sempre nel ’73) da un collettivo animato dalla stessa De Donato. O ancora, piazze gremite di donne e ragazze, madri e perfino nonne, che manifestano per la legalizzazione dell’aborto o contro l’abolizione del divorzio: c’è la vita, sociale e politica, etica e estetica, di un intero paese, in questi scatti. E negli altri che, subito vicino, aprono invece a dinamiche più internazionali: improvvisamente ci si ritrova a guardare i volti furbi e scavati di John Lennon e Yoko Ono alla prima International Feminist Planning Conference (1973), tra giovani e giovanissimi studenti.
E dall’arte di Lennon e Ono a quella di attori, pittori, scultori e danzatori il passo è breve. Ecco che allora, nella stanza a fianco, capitiamo di fronte agli scatti dedicati alle esperienze più significative della creatività degli Anni Settanta, con tre focus precisi e ben ravvisabili: arte figurativa, teatro cosiddetto “delle cantine” e danza.
Impressiona la quantità di personalità immortalate da De Donato: da Christo e i suoi teli a Porta Pinciana a Bonito Oliva in compagnia della scultura American di Segal; da Mario Merz e le sue installazioni a Michelangelo Pistoletto e la sua Donna in verde, passando per Achille Perilli e Giulio Carlo Argan, senza dimenticare il gelido estro di uno stralunato Andy Warhol, una buona parte della mostra è dedicata alle infinite sfumature dell’arte del tempo, còlta non solo in momenti, per così dire, ufficiali, ma anche in situazioni di più rilassata quotidianità.
Un po’ quel che succede con gli scatti dedicati alla danza: Fracci, Bausch, Amodio, Dupond, Terabust, Nureyev sono catturati quasi sempre durante le prove, come se la macchina fotografica avesse più la mano silenziosa del ladro che il rispettoso pennello del ritrattista.
Di segno, invece, quasi completamente opposto sono le foto, evidentemente ‘di scena’, riguardanti quel teatro fortemente sperimentale che esplose inaspettato in quei ’70 (quando ‘sperimentale’ significava ancora, con tangibile urgenza, di ricerca e di protesta, non certo di moda): al fianco di colonne della rivoluzione drammaturgica di quegli anni, quali Leo de Berardinis e Luca Ronconi, passando per gli attori Paolo Poli e Manuela Kustermann, sono molti gli scatti di spettacoli come Le 120 giornate di Sodoma di Giuliano Vasilicò (1972) o Pirandello chi? di Memè Perlini (1973).
E a completare il percorso, in quella stessa sala, una serie di Istantanee che vanno a fissare, bianco e nero su pellicola, i volti e gli sguardi, le mani e i gesti, di decine e decine di personalità varie e variegate, molte dal mondo del cinema e della letteratura, altre dal mondo della politica. Puntiamo, allora, i nostri occhi in quelli felini di una giovane Mariangela Melato, su quelli intensi di Alain Delon o Pierre Clementi, sull’erotica eleganza di Charlotte Rampling o sull’austera figura di Carlo Levi, colpiti ora dall’anziano profilo di Ezra Pound, ora dal giovanissimo primo piano di Valentino Zeichen, stupiti nel vedere insieme il ghigno di Warhol e il sorriso sornione di Alberto Moravia. E come se non bastasse, a voltare un po’ la testa si incontra la fiera figura di Enrico Berlinguer, la faccia serena di Marco Pannella in tribunale o quella di Stefano Rodotà in un comizio.
Niente, insomma, sembra essere sfuggito alla macchina fotografica di De Donato: ogni incontro l’ha fissato, ogni storia in cui le sia capitato d’incappare l’ha immortalata, con una tecnica che, se spesso trascura l’artistico, sempre parla sincera. Non c’è foto che non risulti viva, spontanea, priva come sembra del filtro di pose e posizioni: ogni scatto è figlio d’uno sguardo sulla vita di quel momento, unico e irripetibile nella sua singolarità.
Così come unica e irripetibile è ogni storia che quello scatto fissa e restituisce, consapevole che è proprio di singole storie che vibra e si nutre la Storia.