A proposito del "Borghese"
Il romanzo del Capitale
Il critico Franco Moretti analizza la storia della letteratura dal punto di vista del conflitto tra borghesia e proletariato: quando la narrativa diventa uno strumento politico (per capire la società)
D’accordo, forse non sarà stato Renzi in persona, forse è frutto del lavoro dei suoi, ma quando il politico fiorentino, qualche giorno fa, ha sovrapposto la propria immagine a quella del Pupone, e ci ha scritto sotto, «Una generazione di campioni», non stava inventando niente. Lo “stratagemma stilistico” che il toscano metteva in campo nel far aderire la “storia popolare” di Totti alla sua era un tentativo, malriuscito, non solo di rendersi ben accetto ai più, ma soprattutto di far dimenticare la sistematica distruzione dei diritti del lavoro che ha accompagnato il suo governo (e di altri, prima di lui) e la trasformazione, prima di tutto culturale, che sta cercando di portare a termine. E lo faceva, accostando il suo volto a quello di un uomo – il Pupone – che, a larga parte della classe lavoratrice, è stato capace, in venticinque anni, di regalare “belle emozioni”, “grandi emozioni”. Il suggerimento che Renzi dà – peraltro in parte fallito – di non perdere tempo in “discussioni inutili” e di lasciar fare “all’uomo (tragicamente) solo” – che però sta al comando – “nell’interesse di tutta la comunità” (“dimentichiamo le rivalità, il momento è drammatico per tutti”) contiene in sé una modalità di governo che è già stata (se ne sanno gli esiti) sperimentata, ma soprattutto rivela la natura linguistica che il potere assume nel suo esercizio quotidiano.
Ecco, di “stratagemmi stilistici” simili a quello usato, qualche giorno fa, da Renzi, Franco Moretti ne mette assieme un bel po’ nel suo nuovo libro Il Borghese (uscito da Einaudi nel 2017, pagg. 200, 24 Euro, e in inglese nel 2013) per smascherare un’ideologia apparentemente neutrale – il vittorianesimo – e che, in realtà, serviva da oppressione.
Fra le molte osservazioni intelligenti che Moretti fa, una mi ha particolarmente colpito, ed è questa: «Nella misura in cui parlare di vittorianesimo poteva essere un modo per non parlare di capitalismo, il lavoro degli ultimi quarant’anni mi sembra abbia un senso», dice lo storico della letteratura. Si riferisce agli ottimi libri di Steven Marcus (classe 1928), Gli altri vittoriani (1966) e Engels, Manchester e classe lavoratrice (1974), ma anche, immagino, a lavori più attuali, quali per esempio, Imagining the middle class di D. Wahrman (1995) o a Capitalism, culture and decline in Britain:1750-1990, W.D. Rubinstein (1993). La profonda revisione che questi studiosi hanno realizzato, non permetterà più a nessuno di far assumere al termine “vittoriano” un significato positivo: “classe”, “polizia”, “corpo politico”, “riforma industriale”, sono i sinonimi con cui è stato sostituito. Si potrà forse dare ad esso una connotazione neutra, o farne un semplice riferimento cronologico.
Ma il libro non è solo sul “vittorianesimo”. Non è cioè, solo il racconto di come, per esempio, in Inghilterra, in un determinato periodo storico la classe dominante usasse ornare e legittimare il suo potere con diritti antichi, o come, nei romanzi di quel periodo, le parentesi sintattiche venissero usate per chiuderci dentro verità scomode. Il libro è intitolato Il Borghese, e quindi è molto di più. Parla, per esempio, dei criteri con cui viene pagata una persona in assenza di curriculum, o di “valutazioni oggettive”.
Perché Doguerau, il libraio di Illusioni perdute (Balzac, 1837) offre a Lucien de Rubempré mille franchi per pubblicare il suo romanzo, subito dopo averlo letto, ma riduce la cifra a quattrocento, quando si accorge della situazione di povertà in cui De Rubemprè vive, quando vede cioè la sua stanza di una “nudità disperante”? Quanto conta il giudizio “oggettivo”, nella retribuzione di una persona?
Parla di “roba”, Moretti, e della felicità che prova Mastro Don Gesualdo (Verga, 1889) all’idea di possedere tutta quella terra, e gli edifici, gli animali, i campi, gli alberi, ciò che “tra i poveri, rappresenta gli oggetti della quotidianità”. Ci ricorda che nel concetto verghiano di roba (“il suo etimo è la parola tedesca Raub: bottino, preda, saccheggio”) è presente una traccia di quel “capitale che gronda sangue e sudiciume”, della “accumulazione originaria” di Marx.
Sempre riguardo all’ oggi, questo libro dà utili indicazioni, e per esempio, sul “lavoro culturale”. Perché Matthew Arnold, nel suo Cultura e anarchia (1869) (libro fondamentale, a mio parere, sul tema della propaganda intellettuale) lega il termine “bellezza” ad altri valori quale il “divino”, il “pregio della natura umana”, l’”armonia”? Perché Arnold sente il dovere di dare ad essa un fondamento filosofico, etico, che forse non ha? Perché propone, per la “cultura” stessa, una sorta di vaghezza, di facilità, assimilando “la ricerca della verità” quasi a una forma di pignoleria, quando non proprio di pesantezza esistenziale? Sembra oggi. La ricerca della bellezza e della grazia, della leggerezza (qui, il corsivo è mio) e della superficialità, permettono al dilettante di nascondere l’ingiustizia fondamentale su cui si basa la nostra società, gli permettono di evitarla.
È arbitrario, “Il Borghese”, sì. Ma non solo. Ha fatto di più, visto che è riuscito a dare all’arbitrarietà (al capriccio personale), la connotazione di verità. «Perché morire proprio mezz’ora prima?», si chiede Bento, il protagonista di Don Casmurro (De Asiss, 1899) mentre rimprovera un amico per avergli rovinato, con la sua morte (!) il pomeriggio. Pensiamo a quel che succede, a volte, nelle nostre metropolitane, quando “persone che finiscono sotto i binari” ci impediscono di rispettare i tempi prescritti, i nostri “appuntamenti” e a quanto, il ritardo dovuto a quelle morti, ci irriti.
«Che cosa ha portato la borghesia al mondo?», si chiede Moretti alla fine di un libro, non troppo esteso dal punto di visto delle pagine, ma pieno di spunti e notazioni originali. Già, che cosa ha portato? Ma soprattutto, quale è stata la funzione della letteratura nell’emersione di questa “classe”? Come i racconti, i romanzi, i drammi (i film, da un certo punto in poi) dal settecento ad oggi (almeno), hanno svelato e rivelato intenti, passioni, crudeltà, sottomissioni, omissioni, tetraggini, fregature?
Quanto, mi chiedo io, il racconto delle individualità romanzesche non influenzi (abbia influenzato) gli individui, gli uomini e le donne, nella loro crescita, nella loro interazione sociale, politica, privata, pubblica?
Tornando al “borghese”: è davvero (solo) colui che ha voluto un “dominio molto più razionale sul mondo”, prima dell’industrializzazione e “un dominio molto più irrazionale del mondo”, dopo l’industrializzazione? Possono ancora funzionare, mi chiedo, (solo) i due idealtipi “resi memorabili da Weber e Schumpeter”? Lo chiedo perché, se è vero che una simile classificazione ci aiuta a leggere la frase di Jeff Skilling, uno degli incriminati nella recente vicenda Enron, “Non era una missione (…) Facevamo il volere di Dio”, è anche vero che da questa classificazione mancano totalmente il lavoro e l’attività delle donne. Lavoro e attività che hanno sempre avuto una connotazione loro propria, nascosta, sotterranea, e mancante proprio in quanto tale, per molto tempo, non solo dai libri di storia, ma anche dalle statistiche e dai diagrammi funzionali.
Prendiamo un qualsiasi personaggio (femminile) di Dickens. È evidente che l’autore descriva Peggotty (David Copperfield, 1849) non solo sulla base dei suoi “ricordi di bambino”, ma anche (e soprattutto, lo spero) sulla base di un modello letterario. Quanto, quel modo di essere ha poi influenzato la “femminilità” dell’epoca, in un gioco di rimandi, in cui le donne (la singola donna) (non vi ci) si ritrovavano? E quanto erano, invece, costrette a farlo? Quanto, e per quanto tempo, vi ci si sono infilate (tragicamente) a forza?
Dico questo non per polemica: solo per sottolineare (cosa che Moretti rende bene nel suo libro, e in generale in tutto il lavoro che, da anni, porta avanti) quanto la letteratura sia strettamente connessa alla vita materiale, e da questa condizionata. Lo dico perché “niente è mai dato (e in letteratura soprattutto) una volta per sempre”. La frase, che può sembrare banale nella sua semplicità, è tanto più vera quando si pensi invece a come, un passaggio narrativo, una trama, che possono apparire scontati, potranno, domani, per un “cambiamento tecnologico”, un “passaggio materiale”, per “un capovolgimento politico” o banalmente “climatico”, diventare altro: costringendo anche “l’idealtipo” (e speriamo) a scomparire. Una volta per sempre.