Incontro con il poeta
Poesia della luce
Francesco Scarabicchi domani sarà a Urbino a leggere i propri versi: «Mi emoziona il tonfo della neve che cade nel bianco. Allora, quello che assimila lo sguardo e restituisce la parola conduce a una forma estetica»
Il prato bianco di Francesco Scarabicchi – ristampato quest’anno da Einaudi (pp. 131, euro 12) dopo una prima uscita, vent’anni fa, per la piccola ma raffinata casa editrice l’Obliquo – richiama l’ultima passeggiata di Robert Walser nel pomeriggio di Natale del 1956, quando fu trovato nella neve, senza vita, lungo la via che conduce alla Wachtenegg nel cantone dell’Appenzell, appartenente alla Svizzera tedesca. Una fotografia ritrae le orme dei suoi scarponi, il cappello e il corpo dello scrittore disteso. Il prato bianco è, dunque, una camminata dentro un mondo in letargo, eppure disposto al risveglio. Mondo in cui la natura è Sorge, “cura” nel senso heideggeriano del termine. A ciò si somma la tensione leopardiana verso un segno tangibile di splendore che dia vivezza alle cose in fuga («come una facella/ messa all’aria inquieta/ che ondeggia/ è la mia vita»). La Passeggiata orientale, sezione posta al centro della silloge, fa riferimento ai luoghi di Ortona. Alberto Savinio disse che la passeggiata alta della città abruzzese «è degna di un Tristano ferito e dolorante». La poesia di Scarabicchi effigia quella “malinconia serena” propria, ad esempio, del pensiero greco: il celebrare ciò che non è destinato a vivere, in quel «rumore consueto» della vegetazione che ricorda l’atmosfera votiva dell’Edipo a Colono di Sofocle. Fondamentale è anche la suggestione della durata, entità che fornisce contorno a quanto ha la tendenza a dissolversi, secondo una celebre definizione di Peter Handke. La sensazione della durata è l’esito della fedeltà a ciò che l’individuo sente come più profondamente proprio. E questo si evidenzia con maggiore altezza di tono e di ispirazione nelle «serre silenziose», i sentieri tra gli oleandri e i diospiri in cui si può ritrovare l’incombenza dell’«ora di nessuno».
Ma l’opera del poeta marchigiano possiede legami stringenti anche con le arti figurative. Si pensi alle “stanze” per Lorenzo Lotto, pittore «solitario e febbrile», nei confronti del quale Scarabicchi tenta un’identificazione artistica, o alla descrizione della Madonna in trono e Santi del Perugino (nella riproduzione accanto al titolo). L’ideale della femminilità mariana si incarna, allora, nella vita con una dedica finale alla donna amata: «Alla sola che guarda/ senza colpe// (altri non è che lei,/ del mio sommesso mondo,/ il quieto vivere)».
Domani, 9 giugno, Francesco Scarabicchi sarà ospite del festival letterario “Urbino e le città del libro”, curato dallo scrittore Alessio Torino (sito web: www.urbinocittalibro.it). Leggerà testi da Il prato bianco con un omaggio finale a Paolo Volponi. Lo abbiamo incontrato alla vigilia dell’incontro.
Ci parli della sua silloge.
È il ponte di congiunzione tra il primo tempo del mio lavoro e il successivo. Senza Il prato bianco non credo avrei mai scritto altro. Questo libro è quel minatore di cui mi parlò a Roma Giorgio Caproni: “L’uomo che scende nelle viscere della terra per risalire alla luce e con la piccola pietra d’oro stretta in una mano”.
Cos’è per lei il “bianco”? Possiede una valenza estetica particolare?
Principalmente, associo il bianco alla neve, a quella condizione, a quel clima, a quei silenzi diurni dove si percepisce perfino il tonfo breve caduto da un ramo o da un tetto. O il guardarla cadere da dietro una finestra, quando man mano copre ogni cosa. No, non c’è, almeno per me, una valenza estetica particolare, salvo che quel rumore, quel paesaggio, quella condizione non portino a scrivere. Allora il discorso cambia perché quello che assimila lo sguardo e restituisce la parola conduce a una forma e la forma è pura estetica.
La lirica Nell’ora di nessuno ha un andamento ungarettiano. Quali sono, più in generale, i suoi maestri?
Non saprei. Non ci ho pensato espressamente, ma forse un’arietta tira da quelle parti. Gozzano, Saba con il suo Canzoniere; poi guarderei assolutamente a Sbarbaro e al suo Pianissimo del ’14, a Ungaretti, a Gatto, a Penna, a Betocchi, Montale, Luzi, Pavese, Caproni, Sereni, Pasolini.
In una poesia breve della prima sezione, Serre silenziose, scrive della «luce del sabato». In che senso?
Letteralmente: la luce che illuminava quel sabato di Ascona mentre camminavamo per quelle viuzze calme e quiete…
Quale evoluzione vede nella sua opera dalla prima raccolta, La porta murata, ad oggi?
Invito lei a fare questa ricerca: da La porta murata alla sequenza di sessantuno strofe nel libro su Lorenzo Lotto. Faticherà un po’, ma si risponderà e sarà un’esperienza inedita, un camminare tra le stelle e la strada.
Ha scritto, appunto, versi per il veneziano e marchigiano d’adozione Lorenzo Lotto. È stato per lei quello che Simone Martini fu per Luzi?
Bisognerebbe chiederlo al caro Luzi, ma è ormai impossibile. Mi auguro che lui abbia trovato la chiave che cercava, come l’ho cercata io. Con fatica e compenso.