Le lezioni su “Ossi di seppia”
Piccioni legge Montale
Un corso tenuto allo Iulm nel 1979 sulla celebre raccolta montaliana è adesso un libro dove nella sua cifra – critica come vita – l’autore commenta i testi uno per uno, chiarendoli «nella loro sostanza umana, prima ancora che stilistica». Pubblichiamo l’introduzione di Giuseppe Conte
“Com’è tutta la vita e il suo travaglio” di Leone Piccioni è pubblicato dalla Libreria Dante & Descartes (Napoli 2017, 87 pagine, 12 euro). Oltre all’Introduzione di Giuseppe Conte, che per gentile concessione dell’editore qui pubblichiamo, il volume contiene una Postfazione di Giuseppe Grattacaso.
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Nell’anno accademico 1979-1980, Leone Piccioni tenne allo Iulm di Milano un corso su Montale. Io allora stavo esordendo in poesia. Cosa darei per far tornare indietro la macchina del tempo ed essere là, probabilmente nell’ultimo banco, ad ascoltare quelle lezioni. Oggi, grazie ad appunti perfetti presi da suoi fortunati allievi, almeno il testo di quelle lezioni lo posso leggere, si può leggere in questo aureo libretto.
La cosa affascinante per me è sentire parlare di Montale il massimo interprete di Ungaretti in Italia: avere davanti, nelle parole di Leone Piccioni, del professore e critico, i due dioscuri della poesia italiana novecentesca, i due maestri per me decisivi.
Ed è per me affascinante la lettura che Piccioni dà di Montale focalizzando l’attenzione sugli Ossi di seppia, e, all’interno dell’intero celebre libro, sulla sezione centrale da cui trae il titolo.
Piccioni non si perde in discorsi metacritici o in fumisterie intellettuali: il suo metodo è la critica come vita, e ne abbiamo un assaggio sin dalle prime pagine, quando ci racconta che, dalla sede dello IULM, gli capitava di andare nella vicina via Bigli dove il poeta ottantenne viveva accudito dalla fedele governante Gina. Un giorno il discorso cade sul frammento “Spesso il male di vivere”, uno dei momenti più alti di tutta l’opera montaliana. Il racconto della recita in coro di detto frammento, la scoperta delle lacrime di Montale, vale da solo la lettura del libro.
Piccioni sicuramente trova elegante, mondanamente elegante, il disincanto ironico di Montale: che narra di essere diventato critico musicale scrivendo la recensione al Mameli di Leoncavallo senza avere mai visto l’opera, che si diverte a depistare critici e lettori che credono che l’Anacleto citato in “Elegia a Pico Farnese” sia un papa, mentre è il ragazzo che ricaricava i fucili durante una partita di caccia. Eppure: eppure ci sono quelle lacrime. Quel disincanto non è cinismo, scrive Piccioni, è una forma di autoironia, malinconica forse.
I testi vengono commentati uno per uno, vengono chiariti nella loro sostanza umana, prima ancora che stilistica. Messa subito in chiaro la proprietà altamente inventiva di un linguaggio “assoluto” come quello di Montale e il prodigioso effetto musicale che ha in esso la rima, Piccioni si sofferma meno sugli elementi linguistici che su quelli etici, storici, personali. Ciò gli consente di cogliere l’essenziale, per esempio il nesso indissolubile che in Montale, come in genere negli autori della Liguria, lega il paesaggio, il piano simbolico, il ragionamento morale e gli stati d’animo. O di cogliere in “Non chiederci la parola” una dichiarazione orgogliosa della superiorità del dubbio sull’utopia, e in “Spesso il male di vivere” una religiosità manichea dell’indifferenza, che assume una coloritura di metafisica laica.
Insomma, queste pagine disegnano una via per leggere Montale fuori da ogni montalismo di maniera. Per riscoprire un giovane Montale che, come scrive Piccioni, nel mare vede la proprio adolescenza, e perciò, prima di ogni autocoscienza, il momento tormentato e gioioso dell’abbandono e dell’estasi. Per inciso, il Montale che ho amato di più subito e che, leggendo queste pagine, mi rendo conto di amare moltissimo ancora.
(foto © TecheRai)